Al centro c’è la storia di Arturo e tutto intorno è Cosa nostra

Con “La mafia uccide solo d’estate”, Pif (al secolo Pierfrancesco Diliberto) esordisce dietro la macchina da presa per raccontare una storia sospesa tra suggestioni autobiografiche, commedia...
Di Marco Contino

Con “La mafia uccide solo d’estate”, Pif (al secolo Pierfrancesco Diliberto) esordisce dietro la macchina da presa per raccontare una storia sospesa tra suggestioni autobiografiche, commedia agrodolce e cinema di impegno civile. Il risultato è un film divertente e spigliato, a tratti emozionante (le immagini di repertorio catturate durante i funerali di Falcone e Borsellino toccano ancora il cuore) che “funziona” soprattutto nella prima parte, quando facciamo la conoscenza del piccolo Arturo (interpretato, da grande, dallo stesso Pif), le cui vicende personali si intrecciano con i più significativi omicidi di mafia dagli anni ’70 in avanti. Sin dal suo concepimento, la vita di Arturo è scandita da una strage o da un agguato di “cosa nostra” che incombe su Palermo anche se tutti (in famiglia, al bar, dal macellaio) fanno finta di nulla. Anzi, nel parossistico rovesciamento della realtà, quella entità che Arturo, nel suo piccolo, cerca di afferrare e comprendere e di cui, in fondo, ha timore, diventa inconsapevolmente la sua guida spirituale (sotto le sembianze di un prete educatore omertoso e colluso), un modello da perseguire (l’eroe del protagonista è Giulio Andreotti, scelto dal bambino persino come maschera di carnevale), o datore di lavoro (Arturo finirà per fare il cineoperatore per la campagna elettorale di Salvo Lima). Tra siparietti surreali che vedono protagonisti Totò Riina e altri boss mafiosi, attraverso l’educazione sentimentale di Arturo le cui azioni sono innescate principalmente dall’amore, nato tra i banchi di scuola, per Flora (Cristiana Capotondi), il protagonista alza lentamente gli occhi sulla sua città per osservare, con sguardo nuovo e consapevole, le targhe commemorative di tanti funzionari pubblici, giudici, giornalisti caduti per mano di una mafia che rivela lentamente il suo essere bestiale.

Pif cerca un proprio stile (e lo trova) senza nascondere il “debito” cinematografico nei confronti di un certo tipo di commedia (Virzì e l’incedere di “Ovosodo”) che strizza l’occhio a Forrest Gump nella forma (quando Arturo entra nei fotogrammi della Storia come faceva il personaggio di Zemeckis), e nella sostanza, ingenua e stralunata, dell’uomo qualunque che, alla fine del suo viaggio, impara e condivide con il figlio la coscienza civica che ha sviluppato in una sorta di pena del contrappasso. Trovando così un equilibrio di toni sorprendente per un opera prima che, quando “umanizza” la mafia, lo fa per per denunciarne la mostruosità.

Premio del pubblico al Torino Film Festival.

Durata: 90’. Voto: ***

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