Alberto Savi “libero” a Pasqua con la compagna padovana

Gli occhi scorrono su quella lunga lista: 24 persone dai 21 anni all’età della pensione annientati a colpi di pistole o mitragliatori; 102 feriti; 91 rapine tra banche, caselli autostradali, distributori di benzina, supermercati e uffici postali; e ancora “spedizioni punitive” per odio razziale. Poi incroci altri occhi che ti appaiono miti e stanchi, cordiali eppure rassegnati. Occhi accompagnati da toni e parole pacati, anzi disarmanti se non fosse che il termine evoca un passato terribile. «Signor Alberto?....». Sabato mattina poco prima delle dieci, un quartiere residenziale di eleganti case a schiera in un comune a ridosso di Padova. La domanda è rivolta per capire se quel signore, con l’aria del tranquillo vicino della porta accanto, è proprio lui. «Sì?» risponde un po’ sorpreso.

Eccolo Alberto Savi, 53 anni, una sentenza definitiva all’ergastolo che sta scontando dal 26 novembre 1994, detenuto nel carcere Due Palazzi dove lavora (prima nel call center del Cup-centro prenotazioni dell’ospedale, ora per una coop che digitalizza testi). Eccolo il protagonista di un doloroso capitolo della storia criminale italiana, scritto tra il 1987 e il 1994. Uno degli episodi più vivi nella memoria collettiva: la strage del Pilastro a Bologna, l’eccidio di tre carabinieri in pattuglia poco più che ventenni nell’omonimo quartiere durante il quale morirono, il 4 gennaio 1991, Otello Stefanini, Mauro Mitilini e Andrea Moneta.
Bastano poche parole per rievocare quel periodo: “la banda della Uno bianca”. La banda dei fratelli Savi, Roberto e Fabio, i due capi, e poi il fratello minore Alberto, poliziotto (era in servizio nella questura di Rimini) come Roberto e come il complice Marino Occhipinti (in semilibertà sempre rinchiuso a Padova), tutti dietro le sbarre con un “fine pena mai”.
Ieri mattina Alberto Savi, una borsa con il ricambio in mano, ha raggiunto l’abitazione della compagna: un permesso premio concesso in occasione delle festività pasquali, tre giorni e mezzo con la possibilità di uscire a Pasqua per pranzo. Lo avvicini e pensi che ti respinga. Pensi che, intuendo di trovarsi di fronte a un cronista, si copra il volto e scappi via. Invece Alberto Savi rallenta il passo prima di imboccare il vialetto pedonale che conduce all’ingresso di quella fila di case a schiera che già conosce. Del resto molti, lì, sanno bene chi è. E lo trattano con amicizia, come la coppia residente nello stesso complesso di case che, in auto, incrociando la macchina mentre sta parcheggiando, frena e si ferma per saluti e abbracci.
Alberto Savi capisce che si vorrebbero da lui pensieri e parole. «No grazie», risponde misurato, «lasciamo stare per piacere». Non è spazientito e spiega il senso di quel “no”: «Rischiamo di fare del male a tante persone... Vi prego lasciamo stare. Auguri di buona Pasqua» conclude pacato insieme alla compagna prima di infilarsi nella stradina verso casa per iniziare la breve vacanza fuori dal “grattacielo con le sbarre”, lontano una ventina di chilometri.
È stato il tribunale di Sorveglianza ad autorizzare il permesso, e non è il primo. Un permesso più lungo di altri perché Alberto Savi è stato ritenuto meritevole dopo oltre 23 anni di detenzione e un percorso personale comprensivo di una nuova coscienza etica e critica, come scritto da psicologi ed educatori.
Dietro le sbarre ha ammesso la sua responsabilità per la strage del Pilastro (unici omicidi per cui è stato condannato) e ha avviato un percorso di mediazione penale con una delle vittime. «Il dolore non l’ha mai abbandonato», aveva spiegato lo scorso anno il suo legale. Ma dalle famiglie delle vittime parole sempre durissime: «I nostri morti non hanno permessi premio».
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