Baby gang, per i 14 imputati il pm chiede 80 anni di carcere

I ragazzini sono accusati di aver razziato almeno 25 abitazioni in città e di aver venduto il bottino Il loro ritrovo era nella centralissima Galleria Tito Livio. Indagine ancora aperta su altri 40 colpi

Organizzazione paramilitare e legami di tipo familistico. Eccoli i 14 componenti della baby gang italo-albanese, una banda di ragazzini che - punto di ritrovo la centralissima galleria Tito Livio - razziavano case e appartamenti in città con qualche puntata anche fuori provincia come Castelfranco Veneto nel Trevigiano e Chioggia nel Veneziano.

Il pm Sergio Dini ha chiesto una condanna complessiva a 80 anni di carcere per 14 di loro, imputati del primo filone d’indagine che si è conclusa con la contestazione di 25 furti commessi dall’ottobre 2016 al giugno 2017. Una condanna pesante che, suddivisa, comporterebbe dai 3 ai 7 anni di carcere per ciascun imputato (di età compresa fra i 18 e i 26 anni, alcuni detenuti, oltre a un minore di cui si occuperà il tribunale minorile). I reati contestati, a vario titolo, sono associazione a delinquere, furto e ricettazione.

I ragazzini mettevano a segno i colpi organizzati in batterie che variavano componenti a seconda delle esigenze. Ma anche per ridurre la possibilità di essere individuati. In tre o quattro al massimo “attaccavano” il bersaglio, assicurandosi che le abitazioni prese di mira fossero vuote: d’inverno tra le 17 e le 20, nel periodo estivo durante la notte. Gioielli in oro: ecco ciò a cui puntavano; tutto il resto era di scarso o nessun interesse. La refurtiva, infatti, era smerciata in alcuni compro-oro, in un caso era stata ceduta a nomadi di un campo rom nel Milanese.

L’appuntamento nel loro quartiere generale, in centro, era di regola a partire dalle 14. A quell’ora si ritrovavano per organizzare e pianificare gli assalti, verificare la disponibilità delle persone per i necessari sopralluoghi ed eventualmente decidere come piazzare la refurtiva.

Per entrare nelle case forzavano una finestra utilizzando un grosso cacciavite che, nelle intercettazioni, bollavano come “la spada di Skandenberg” dal nome del patriota, eroico difensore dell’indipendenza albanese.

Poi si preoccupavano di bloccare la porta d’ingresso per scongiurare un rientro dei proprietari. Come? Piazzando un armadio o bloccando la serratura con qualche altro aggeggio. Tutto durava al massimo dieci, quindici minuti, prima della fuga. La refurtiva era nascosta, di frequente sotterrata lungo l’argine del Bacchiglione, nell’attesa che la acque si calmassero per andare a vendere la merce ai compro-oro in tutta tranquillità. Gran parte dei ragazzi albanesi avevano rinsaldato i loro legami nelle comunità per stranieri minorenni gestite dall’associazione “Noi Associazione Famiglie Padovane”. La sentenza è prevista per domani, mentre resta aperto il secondo filone d’inchiesta su altri 40 furti.

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