Bagnoli, una distesa di stagni data in dono ai monaci

BAGNOLI. È sacrosanto, come insegna un antico quanto autorevole adagio, che a caval donato non si guardi in bocca.
Ma visto che nella fattispecie di anni ne sono passati più di mille, e che dei protagonisti dell’epoca si è persa la traccia giù per i rami del Dna di intere generazioni, ci si può anche prendere la libertà di buttar lì una piccola malignità sul marchese Almerico e sulla sua consorte donna Franca: quando, il 30 gennaio 954, firmano un atto di donazione ad un monastero di Brondolo, vicino a Chioggia, di una corte chiamata Bagnolo, non devono poi fare un grande sforzo.
A suggerirlo è il nome stesso del centro abitato che poi diventerà Bagnoli, e che deriva da “balneoli”, vale a dire una distesa di piccoli stagni. Insomma, un regalo da quattro soldi, uno di quelli che si fanno più che altro per sbarazzarsene.
Questa di omaggiare concretamente, magari con cose di scarto, una qualche chiesa nella speranza (o nell’illusione? ) di salvarsi l’anima, o comunque di prenotarsi per uno sconto nell’aldilà per farsi almeno condonare qualche secolo di Purgatorio, è del resto pratica diffusa per secoli.
Ne sa qualcosa proprio Bagnoli, se è vero che molto più tardi, nella seconda metà del Seicento, il nobile veneziano Lodovico Widmann, forse colto da rimorso per essersi preso un possedimento appartenente ad alcuni ordini religiosi, provvede di tasca propria a rinnovare la chiesa di San Michele, di remote origini.
Come suggerisce il nome, si tratta infatti di un luogo di culto che risale all’epoca longobarda, quando in larga parte dell’Alta Italia, partendo proprio dal Veneto, il controllo politico, amministrativo e militare è saldamente tenuto in pugno da questa popolazione, che annovera Michele tra i suoi santi più venerati.
In quella fase, e per qualche secolo, non c’è spazio per molto altro in una vasta area della Bassa padovana in cui rientra Bagnoli: paludi e acquitrini colonizzano gran parte del territorio. E tuttavia quella piccola chiesa riesce a resistere e anzi a crescere di importanza, specie nei quasi quattro secoli in cui la padrona di casa è la Serenissima.
Ma proprio questo suo benessere acquisito ne segna le sorti: nel 1656, quando la Dominante è impegnata in un’aspra e costosa guerra contro il Turco e deve difendere l’isola di Candia (l’odierna Creta) dalle minacce dell’avversario, per recuperare quattrini mette in vendita le proprietà del monastero (nel frattempo arrivato a ospitare una sessantina di monaci), non prima di aver prudentemente cercato e ottenuto l’assenso di papa Alessandro VII. La stragrande maggioranza di questo patrimonio viene acquistato dal conte Ludovico Widmann, che versa nelle casse della Serenissima la non indifferente cifra di 440 mila ducati; la rimanente parte la compra un altro nobile veneziano, Giovanni Nave.
I due, a quanto pare, hanno una concezione piuttosto estensiva del concetto di proprietà, che si estende perfino alle anime: sottoscrivono infatti un accordo in base al quale spetti in ogni caso a uno dei due la nomina del nuovo curato, alla morte del titolare.
Le cronache non riferiscono se questo patto della sacrestia abbia allungato o accorciato la vita al sacerdote; sta di fatto che dal suo trapasso in poi, la figura del prete responsabile di San Michele viene di fatto privatizzata.
Ed è proprio in questa fase che, forse assalito da qualche rimorso, Widmann decide di far risistemare a proprie spese la chiesa, addirittura ricorrendo a una sorta di Renzo Piano dell’epoca, l’architetto veneziano Baldassarre Longhena.
Ma già che c’è, si fa anche costruire la sontuosa villa che ancor oggi domina la piazza di Bagnoli; e per darle adeguato risalto incarica uno scultore di grido come Antonio Bonazza di ornarne il giardino con dodici statue.
Tra gli ospiti illustri che firmeranno il registro delle presenze, nel secolo successivo va segnalato lo spirito beffardo di Carlo Goldoni, evidentemente impressionato sia dall’ambiente che dall’accoglienza, visto che ne lascia traccia esplicita nelle sue “Memoires”: “Andai a passare il resto dell’estate a Bagnoli, che appartiene ai conti Widmann.
Questo ricco e generoso signore amava attorniarsi d’una società eletta e numerosa; si rappresentavano commedie, si recitavano versi, e per quanto serio ed austero fosse, non vi era nessun Arlecchino più gaio di lui”. Si trova così bene in quella compagnia Goldoni, da scrivere di getto brevi canovacci di commedie che poi vengono rappresentate in villa, con gli ospiti e lo stesso autore come attori.
Una piccola storia parallela è quella che interessa le due frazioni di Olmo e San Siro; quest’ultima in particolare, potendo vantare un certificato autonomo di battesimo nei dintorni dell’anno Mille, quando in un documento si fa menzione di una cappella dedicata a San Siro, vescovo di Pavia.
Più autorevole un atto del 1234, quando la “villa” (centro abitato) di San Siro è chiamata a concorrere alle spese militari di Padova con due carri. Ma proprio questa sia pur modestissima partnership bellica inguaia il piccolo paese nel secolo successivo, segnato dallo scontro tra Carraresi e veneziani: la zona è teatro di scorrerie che lasciano segni pesanti e riducono in miseria la popolazione. Il vento gira solo nel Seicento, grazie all’ennesimo patrizio veneziano con ampia disponibilità di cassa, Pietro Pellegrini, il quale attratto dal posto vi fa costruire una sontuosa villa con relativo e regolamentare parco.
Per Olmo, c’è da segnalare la presenza di un santuario mariano sorto nel Quattrocento e retto dai monaci agostiniani, al cui interno c’era un olmo verosimilmente legato a qualche miracoloso evento, visto che ha finito per dare il nome al luogo.
Tornando a Bagnoli nel suo insieme, la sua sorte finisce per identificarsi a lungo con il latifondo, il che dà lavoro a parecchie persone ma con un reddito decisamente basso, legato alla condizione dei fittavoli: una situazione che dura per l’intera prima metà del Novecento, con l’acquisto di ampie proprietà da parte di un uomo d’affari, Pietro D’Aremberg, con residenza a Parigi, che quasi neanche sa dove sia fisicamente quel paese.
E bisogna aspettare il secondo dopoguerra, in particolare gli anni Settanta, per veder arrivare anche qui l’onda del miracolo economico declinato in chiave veneta.
(8, continua)
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