Banche popolari in Veneto, con le liti si finisce mangiati

Persa l'occasione di un'unione le banche popolari venete assomigliano a cattivi fratelli che si litigano le briciole
Ferrazza Venegazzù assemblea soci Veneto Banca 2014 Favotto nuovo presidente con presidente uscente Flavio Trinca
Ferrazza Venegazzù assemblea soci Veneto Banca 2014 Favotto nuovo presidente con presidente uscente Flavio Trinca

PADOVA. La scossa al mondo bancario impressa dal decreto del governo Renzi che impone alle banche popolari la trasformazione da cooperative a società per azioni avrà una portata superiore a quella che ebbe, ormai 25 anni fa, la legge Amato.

Quella legge sdoppiò la governance delle casse di risparmio creando le fondazioni con il fine dichiarato di strapparle al controllo dei partiti. I vertici però rimasero gli stessi, tant’è che i vari Paolo Biasi e Dino De Poli, ancorché ottuagenari, sono ancora incollati alle poltrone e chi è venuto poco dopo, vedi Antonio Finotti, è lì ormai da tre lustri. È ben vero che alla lunga le casse sono state incorporate dalle allora banche di interesse nazionale, ma soprattutto per la loro incapacità politica di fare sintesi a livello regionale. Tant’è che Cariparo finì inglobata da Intesa, mentre Cariverona e Cassamarca sono stati inghiottiti da Unicredit. Sono sopravvissute le casse rurali, ancora troppo piccole per attirare attenzioni e grandi appetiti, ma non per questo meno legate alla politica locale. Rimasero soprattutto le banche popolari: il Banco Popolare di Verona, la Bp Vicenza e Veneto Banca di Montebelluna. Con le ultime due che si sono sempre guardate in cagnesco in un’estenuante guerra di confine, finendo per fare la fine dei fin troppo celebri polli di... Renzi.

Cosa succederà adesso? Semplice, c’è un anno e mezzo per fare la pace e trovare modo di fare massa critica per evitare di essere mangiati da qualche fondo speculativo o da un grande istituto, magari straniero, magari tedesco, visto che qualcuno vede la longa manus teutonica dietro il decisionismo del premier, con l’effetto immediato di privare l’imprenditoria regionale di un sostegno finanziario o magari anche controparte che comprenda però le sue dinamiche e parli almeno la stessa lingua. Difficilmente succederà, troppo forti le antipatie, troppo grandi le offese, troppo aspri gli animi, troppi fuochi accesi dietro le spalle degli uni e degli altri, anche se in guerra, in politica e negli affari mai si può scrivere la parola fine.

Staremo a vedere se prevarranno il coraggio e una visione economica che abbia contezza del fatto che il cuore pulsante dell’industria europea batte ancora tra Nordest e Germania (come riportiamo oggi) o piuttosto le vecchie ed egoistiche logiche di campanile che puntano solo alla conservazione delle rendite di posizione. Come ci mostra con lineare chiarezza Daniele Ferrazza, gli oppositori a ogni cambiamento sono dentro le stesse banche e nella politica, ma anche nell’imprenditoria che ha forse perso la vocazione che il nome le attribuisce, se pensiamo che i più grandi e innovativi, gli inventori del sistema Nordest, i Benetton, hanno rinunciato a essere industria per fondare il loro business nella rendita di posizione (autostrade, stazioni, aeroporti e autogrill).

Anche la politica ha giocato un ruolo molto forte nella conservazione miope dello status quo, come dimostra la stucchevole discussione sul limite dei mandati elettorali della casta dei consiglieri regionali, che incapaci di comprendere non tanto e non solo il clima di disprezzo e biasimo nei loro confronti, quanto la disperazione di quelli cui loro dovrebbero essere a servizio, che perdono il lavoro, non riescono a trovarne i propri figli, si ritrovano tartassati in quello che hanno di più materialmente caro (la casa) e non trovano alcuna risposta a nessun livello amministrativo, perché i sindaci non hanno più neppure i fazzoletti per piangere, su Roma è meglio stendere un pietoso velo e la Regione spende parole su parole senza concludere niente, e intenta una causa dietro l’altra allo Stato, spendendo fior di milioni dei veneti. Se poi andiamo a vedere le cose fatte ci ritroviamo che l’unico vanto reale è la nostra sanità, per merito soprattutto di quelli che ci lavorano, spesso sacrificando il loro tempo, quello delle famiglie e le loro energie.

E siamo tornati al punto da cui siamo partiti. Siamo ancora qui ad accusarci di non saper fare squadra di non essere capaci di disegnare il nostro futuro e costruire il nostro destino. Saremo anche stati capitani coraggiosi, con la valigia in mano siamo andati in giro a conquistare prima l’Europa e poi il mondo, ma a casa nostra siamo ancora lì come cattivi fratelli a litigarci le briciole, mentre perdiamo l’ultimo treno per unirci e rispondere colpo su colpo alla concorrenza che il mercato impone.

Argomenti:bancheeconomia

Riproduzione riservata © Il Mattino di Padova