Burano, l’isola del merletto svuotata Botteghe chiuse, silenzio e speranza

IL REPORTAGE
Ristoranti e botteghe per turisti, edicole per turisti, pescherie e pasticcerie per turisti. Il coronavirus cancella Burano. Per duemila e trecento anime ora restano quattro piccoli alimentari, due osterie, una pizzeria da asporto, una farmacia, una tabaccheria, un ferramenta, una banca, un ufficio postale, una chiesa, i carabinieri.
L’isola più fotografata al mondo aspetta di rinascere, ma ora non c’è più. Il rumore delle folle di visitatori ha lasciato spazio al silenzio e al passo incerto degli anziani con il carrello della spesa.
Lingue come il francese, l’inglese e il giapponese non risuonano più tra le calli colorate. Al loro posto, il dialetto si è ripreso i suoi spazi.
Per strada si torna a salutare chiunque passi, come una volta. Ci si dà appuntamento in tarda mattinata lungo via Galuppi, unico luogo di ritrovo. Un’ombra di vino rosso all’aperto, bicchiere rigorosamente in plastica. Una chiacchierata in compagnia, e poi a casa.
Il lavoro, quello dei tempi d’oro, è un lontano ricordo. Il turismo qui è tutto, o quasi. Ora è scomparso, e con i soli residenti arrivare alla fine del mese è dura per qualunque attività. Si attinge ai risparmi, finché durano.
Così c’è chi tiene aperto lo stesso. Per una “questione di rispetto” verso i clienti storici. Così ha scelto Michele De Piccoli, 55 anni, dal 1993 titolare dell’osteria Al Fureghin, nel sestiere di San Martino sinistro.
«Ho lasciato a casa i miei dipendenti, incasso anche dieci euro in una mattinata» spiega, «ma vengo qui lo stesso, lo devo a chi da anni bussa alla mia porta anche solo per un bicchiere o per un calamaro da mangiare per strada. Non certo per convenienza». Lungo fondamenta della Giudecca, sei negozi di merletti e artigianato locale hanno abbassato da mesi la saracinesca.
La settima vetrina è di Saturnia Molin, sessant’anni, venti dei quali passati dietro al bancone dei salumi. Ogni giorno, racconta, ha non più di dieci clienti: «Pane, latte, un po’ di affettato. Prima l’arrivo delle catene di supermercati, poi l’acqua alta e ora il virus. Non sappiamo quanto potremo durare».
La pensano così anche i fratelli Pavan, Luca e Marco, che vendono dolci tipici e altre squisitezze: soprattutto per chi non li ha mai assaggiati prima. A poche decine di metri, la pescheria Laguna fa i conti con gli incassi di fine mese. Di cinque dipendenti, a lavorare sono rimasti solo i due soci: Andrea Molin e Daniele Rossi. «Siamo quattro anime, impossibile sopravvivere solo con i residenti» raccontano, «poi con la crisi il pesce non si compra. Avremo perso l’80% di fatturato».
È lo stesso destino di Alessandro Tagliapietra, artigiano del vetro, che con la moglie gestisce una piccola bottega di orecchini e collane. Chiuso da mesi, due dipendenti lasciate a casa, non sa se e quando potrà riaprire. C’è poi il dramma di chi il lavoro l’ha perso per davvero. Scaricato dopo 20 anni di onorato servizio come cameriere, nonostante il blocco di licenziamenti. È il caso di un padre di famiglia, 55 anni, che preferisce restare anonimo. Da mesi sopravvive con il sussidio di disoccupazione e, con una famiglia a carico, non esclude di doversi trasferire: «Mi hanno licenziato a marzo, riassunto ad agosto fino a fine ottobre. Mai saltato un giorno di lavoro, non è bastato» racconta, «se ci sono altri nella mia situazione? Quanti ne vuoi».
In piazza Galuppi, cuore dell’isola, il sole invernale riscalda manciate di operai alle prese con piccoli cantieri in manutenzione, gli arnesi rimbombano. Qualche anziano di ritorno dalla spesa si ferma nell’unica edicola aperta gestita da Diego Gianolla, 54 anni, che è tornato a rifornire giornali per i residenti dopo un mese di chiusura.
«Ma il mio incasso per tre quarti arriva dal turismo, con piccoli souvenir e qualche bibita» ragiona amaro, «Ristori? E chi li ha visti. Tasse per plateatici e assicurazione, però, quelle sì». Da Burano, isola congelata, è tutto. —
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