Camicie di forza ed elettroshock: a Padova i reperti del manicomio finiscono al museo

A dicembre sarà inaugurata una sezione del Musme dedicata alla psichiatria, in preparazione anche un volume con la storia del complesso
Elena Livieri
Una camicia di forza
Una camicia di forza

PADOVA. Camicie di forza, una macchina per l’elettroshock, il cranio di un paziente epilettico, sezioni anatomiche di cervello, cartelle cliniche: sono alcuni dei reperti storici che l’Usl 6 Euganea offre in comodato d’uso al Museo di Storia della Medicina di Padova (Musme) che a fine anno aprirà una sezione tutta nuova dedicata alla Psichiatria. E per allestirla meglio non si poteva trovare che il materiale del Manicomio provinciale di Padova, inaugurato nel 1907 in quello che oggi è l’Ospedale Ai Colli.

Si tratta di reperti originali, catalogati e custoditi con cura certosina grazie al lavoro della dottoressa Maria Cristina Zanardi, archivista dell’Usl 6, che sta anche ricostruendo tutta la storia del manicomio in vista di una pubblicazione. Il manicomio di Padova ospitava fino a 600 pazienti l’anno, vi sono stati ricoverati anche 800 bambini e negli anni della Prima Guerra Mondiale – tra il 1915 e il 1918 – anche 1.700 giovani soldati.

Una storia da valorizzare

L’Usl Euganea ha accolto con grande interesse l’iniziativa del Musme di creare una nuova area dedicata alla Psichiatria e di dare quindi il proprio fondamentale contributo mettendo a disposizione i reperti dell’ex manicomio. «Il progetto del museo» conferma Zanardi, «è in linea con il nostro impegno per valorizzare la storia del manicomio di Padova che dal 1907 quando è stato inaugurato ha chiuso ufficialmente con l’introduzione della legge 180 nel 1978, ma di fatto ha continuato a ospitare pazienti fino a una quindicina di anni fa. Da parte nostra organizziamo visite all’interno del complesso anche con le scolaresche per far conoscere la storia di questo luogo» sottolinea Zanardi, «importanti momenti per spiegare i tratti caratteristici del manicomio fondato da Ernesto Belmondo, che fin dall’incarico dato all’architetto Sansoni per disegnare il complesso, con i tipici padiglioni immersi in un grande parco, intendeva creare un luogo di cura ma anche di vita per le persone affette da malattie psichiatriche. C’erano infatti una colonia agricola, una calzoleria, una sartoria con i telai, una tipografia, laboratori di falegnameria e cucina dove i pazienti, a seconda delle loro inclinazioni, lavoravano».

I reperti per il Musme

In una delibera firmata nei giorni scorsi dal direttore generale Paolo Fortuna, l’Usl 6 Euganea ha messo nero su bianco l’impegno a fornire in comodato d’uso gratuito al Musme i reperti storici del manicomio: nell’elenco figurano una camicia di forza, una macchina per l’elettroshock con il generatore per farla funzionare, tracciati di elettroshock ed encefalogrammi, sezioni anatomiche del cervello conservate nell’Istituto di Anatomia Umana dell’Università di Padova, il cranio con foro di un paziente epilettico con copia della cartella clinica, una serie di disegni dei pazienti, un camice grembiule di un assistente, un album dell’inaugurazione, fotografie e volumi della Biblioteca storica del manicomio. «Si tratta di materiale davvero prezioso per la storia che può raccontare» rileva Zanardi, «sia dal punto di vista della Medicina e della Psichiatria, sia della società. Nella scheda che accompagna la macchina per l’elettroshock si spiega: «Le terapie di shock di uso normale a quel tempo, furono sempre praticate con tutte le regole di una buona tecnica professionale ed evitando ai malati disagi e sofferenze. L’uso dell’elettroshock fu sempre fatto previo uso di ipnotici e miorilassanti da un medico anestesista e in modo da evitare qualsiasi spettacolo che potesse costituire stress emotivo. Il rapporto quotidiano del malato col personale infermieristico, medico e psicologico, era costituito dalla raccolta di dati personali, esami di laboratorio, rilevamenti psicodiagnostici, indagine psicologica e dal rapporto con le famiglie nella cura, nella risocializzazione e nell’inserimento lavorativo. Tutto questo garantiva una presa in carico globale del malato e della famiglia».

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