Cannabis e salute, le patologie per l'uso terapeutico del Thc

In Italia il ricorso ai medicinali cannabinoidi è legittimo dal 2007, ovvero da quando l’allora ministro della Salute Livia Turco ha riconosciuto l’uso terapeutico del Thc, principio attivo della cannabis, e di altre due sostanze simili di origine sintetica, il Dronabinol e il Nabilone. Le malattie per le quali questi farmaci sarebbero indicati vanno dalla Sclerosi multipla (i malati italiani sono oltre 58mila) alla Sla (Sclerosi laterale amiotrofica) all’epilessia, dalla fibromialgia al glaucoma alla neuropatia, fino alle lesioni midollari, al morbo di Crohn e al cancro. Ad essere colpiti da queste patologie sarebbero nel nostro Paese 600-900mila persone. Abbiamo provato a fare il punto della situazione dal punto di vista strettamente medico-scientifico, analizzando le situazioni patologiche caso per caso.
Cannabis e sclerosi multipla
I farmaci contenenti derivati della cannabis esistono da diversi anni: possono essere sintetici, cioè contenenti sostanze ottenute da procedimenti industriali, o di origine naturale. Come si legge nel dossier scientifico “Cannabinoidi e sclerosi multipla” dell’Aism – Associazione italiana sclerosi multipla, gli studi sui cannabinoidi nella SM seguono due direzioni: quella di valutare i cannabinoidi come possibili trattamenti sintomatici e come eventuali trattamenti di base, analizzando le sue potenzialità neuroprotettive. In paesi come Canada, Gran Bretagna, Olanda e Belgio, farmaci a base di cannabis sono stati autorizzati da tempo per il trattamento di nausea e vomito nelle chemioterapie antitumorali, per l’anoressia in malati di AIDS e per il controllo del dolore nelle persone con SM. Il 30 aprile 2013 in Italia è stato approvato Sativex, il primo farmaco a base di endocannabinoidi, per il trattamento della spasticità muscolare causata dalla sclerosi multipla.
Nell’organismo umano, sia a livello del sistema nervoso centrale che del sistema immunitario, esistono recettori che “riconoscono” i cannabinoidi, e questo perché il nostro organismo produce sostanze molto simili a queste, gli “endocannabinoidi”. In particolare, i cannabinoidi interagiscono con due diversi recettori (i CB, di tipo 1 e 2) attivati dagli endocannabinoidi endogeni (ovvero prodotti dall’organismo stesso). In condizioni sperimentali la cannabis ha dimostrato di agire positivamente su molti dei complessi meccanismi che determinano l’apoptosi, ovvero la morte “massiva” dei neuroni, ed è questo il motivo per cui tali farmaci sono stati ipotizzati per il trattamento del morbo di Parkinson, della sclerosi laterale amiotrofica e di altre patologie che presentano una “degenerazione nervosa”, compresa la SM, o fenomeni di neurodegenerazione, specie quando la malattia progredisce. È stato dimostrato, inoltre, che alcune molecole derivate dai cannabinoidi sono in grado di ridurre l’infiammazione del tessuto nervoso e la perdita di mielina nell’encefalite allergica sperimentale. Infine, un’altra azione documentata dei cannabinoidi è quella sul cosiddetto “traffico leucocitario”, cioè l’azione sulla capacità dei globuli bianchi, le cellule immuni dell’organismo, di spostarsi dentro e fuori il cervello, per iniziare o continuare il danno ai tessuti nervosi.
Cannabis ed epilessia
“Quando parliamo del rapporto tra cannabis ed epilessia – spiega Giuseppe Capovilla, presidente della Lega Italiana contro l’Epilessia (LICE) ed esperto dell’ Agenzia Italiana ed Europea per i farmaci antiepilettici - dobbiamo precisare che esistono diversi tipi di cannabis e vanno fatte distinzioni anche rispetto a come la cannabis viene prodotta (vale a dire se è industriale o artigianale: la prima è più sicura, la seconda meno). Parlando in termini strettamente scientifici, in teoria cannabis e prodotti derivati hanno capacità anticonvulsivanti, ma dal punto di vista degli studi clinici, di indagini controllate non ne abbiamo neanche una. I dati al momento a disposizione per indagare il rapporto tra cannabis ed epilessia derivano in gran parte da casi aneddotici dei pazienti. Abbiamo un unico studio di riferimento condotto negli Usa che ha valutato l’efficacia del cannabidiolo (unico farmaco a base di cannabis presente al momento sul mercato per la cura dell’epilessia): stando ai dati raccolti, la percentuale di efficacia del principio attivo è del 30%, non molto diversa da quella del placebo in diversi studi”.

Capovilla, membro del Committee for Orphan Medicinal Products (COMP), che valuta l’efficacia dei farmaci per le malattie rare, spiega che un caso interessante, ma aneddotico, è quello della piccola Charlotte, affetta da sindrome di Dravet, una forma di epilessia molto grave: durante la somministrazione con terapia a base di cannabis, la frequenza di crisi nella bambina è molto diminuita e le condizioni di salute sarebbero andate spettacolarmente migliorando.
“Ma ogni caso è diverso e bisogna capire se il miglioramento è dovuto alla storia naturale della malattia o all’azione del farmaco. Non lo sappiamo, dobbiamo ancora controllare l’efficacia del cannabidiolo”, spiega l’esperto. Altro aspetto ancora tutto da indagare è quello della “safety”, la sicurezza. Tutti i farmaci danno effetti collaterali, quali sonnolenza, inappetenza ecc e non è detto che somministrare cannabis a un bambino di 3 anni non possa produrre effetti negativi sulla sua salute anche in termini di crescita o interferenza con altri organi. “Sono necessari studi rigorosi – continua Capovilla - L’approvazione di un farmaco può essere fatta o tramite la legislazione sui farmaci orfani o con trafila tradizionale, relativa a una malattia che non è rara. Alcune forme di epilessia sono rare, quindi un farmaco per cui viene richiesta l’immissione sul mercato non passa attraverso la legislazione sui farmaci orfani: se è così è perché è malattia rara”. Il Cannabidiolo al momento è un farmaco orfano per la Sindrome di Dravet (in Europa) e per la Sindrome di Dravet e Lennox-Gastaut (negli Usa).
“Io sono molto pragmatico: sull’efficacia della cannabis in rapporto all’epilessia mancano i dati. Le persone che hanno malattie gravi si attaccano ad ogni tipo di speranza ma la medicina ha bisogno di dati. Noi medici siamo aperti alle novità e la cannabis, per quanto “vecchia” come idea, è relativamente nuova nella sua applicazione terapeutica, ma mancano studi rigorosi. In Italia partiranno, in Spagna siamo già in fase avanzata, ma i dati non sono particolarmente brillanti. Poi gli studi vanno replicati, e sperimentati su varie tipologie di popolazione. Non dobbiamo farci prendere da emotività. Dobbiamo essere medici rigorosi, nell’interesse dei pazienti”.
Cannabis e morbo di Crohn
Come si legge su cannabisterapeutica.info, le ultime ricerche confermano una notevole efficacia dei cannabinoidi contro la malattia o morbo di Crohn, un’infiammazione cronica e ancora poco conosciuta dell’apparato digerente che affligge milioni di persone nel mondo. I ricercatori dell’Institute of Experimental and Clinical Pharmacology della Medical University of Graz, in Austria, portano avanti le ricerche a partire da uno studio del 2013 che ha dimostrato la piena efficacia del THC contro la malattia di Crohn in un periodo di test della durata di otto settimane per 10 pazienti su 11.
La cannabis viene usata da secoli contro i disturbi gastrointestinali ma solo negli ultimi dieci anni la ricerca è ripartita con esperimenti su infiammazioni e coliti ulcerose. Lo studio “Cannabis Finds Its Way into Treatment of Crohn’s Disease” conferma le molte testimonianze dei pazienti affetti dal morbo di Crohn che hanno sperimentato la cannabis per alleviare dolore, diarrea, ipersecrezione e crampi muscolari causati da questa patologia autoimmune, rilevando anche un contributo al ripristino del tessuto epiteliale danneggiato.
Secondo i ricercatori, la più idonea al trattamento della malattia di Crohn è la varietà Sativa, tuttavia, i meccanismi con cui la cannabis agisce a livello centrale e periferico sui sintomi di questa patologia non sono del tutto chiari e richiedono ulteriori ricerche.
Gli ultimi risultati scientifici si sommano allo scalpore suscitato dal caso di Shona Banda, la giovane donna americana che ha sconfitto una grave forma del morbo di Crohn proprio con la cannabis. La donna è stata sottoposta dal 2004 a diversi trattamenti senza alcun risultato, fino al punto di essere considerata in fase terminale. Il suo intestino non era più in grado di ricevere nutrienti ed era immobilizzata nel letto. Convinta dal documentario “Run from the Cure” sul metodo Rick Simpson a tentare una terapia con cannabis, ha immediatamente migliorato la propria condizione e oggi conduce una vita normale. Banda ha anche pubblicato un libro in cui racconta la sua esperienza nella cura con il metodo Simpson: il titolo è “Live free or die”.

Cannabis e cancro
“La cannabis terapeutica – spiega Stefano Giordani, responsabile di oncologia territoriale presso la Asl di Bologna e direttore scientifico dell’Associazione Onconauti - da cinque, sei anni è saltata all’attenzione degli oncologi esperti di cure palliative e terapie dolore: inizialmente sono usciti studi che documentavano una certa efficacia nel controllo del dolore cronico da cancro, e in questo senso la cannabis è certamente un prodotto interessante, perché sembra possa ridurre il dosaggio di oppiacei nei pazienti affetti da dolore neuropatico o che hanno subìto interventi al sistema nervoso centrale. In più alcuni studi hanno dato indicazioni di efficacia contro nausea causata da trattamenti antitumorali. Oggi disponiamo di farmaci per prevenire il vomito da chemioterapia molto efficaci ma non nel 100% dei casi , inoltre alcuni sono molto costosi e hanno effetti collaterali. Inoltre, il problema della nausea e' ancora non completamente risolto. La cannabis, quindi, alla luce di tutto questo, potrebbe avere un rapporto costi-beneficio molto favorevole. Al momento non ci sono linee guida né prove definitive, soprattutto sui rischi legati alla possibile dipendenza, ma possiamo dire che dal punto di vista del rapporto costi-benefici l'uso della cannabis nel dolore cronico da cancro in casi selezionati può essere consigliabile”.
Cannabis e terapia del dolore
“Quando si parla di dolore – spiega Claudio Baldi, anestesista rianimatore e terapista del dolore presso l’ospedale San Pietro di Roma - bisogna distinguere tra quello oncologico e quello cronico benigno, che proviene da patologie osteo-articolari di vario tipo, ovvero da tutto ciò che non riguarda le patologie oncologiche. L’impiego della cannabis in questo secondo caso l’utilizzo non è ancora diffuso. Noi nella terapia del dolore cronico benigno utilizziamo farmaci a base di morfina: l’impiego in questo ambito di cannabis ancora non è molto elevato perché ci si scontra con problematiche non legate strettamente all’aspetto scientifico. Sul dolore oncologico pesa l’aspetto morale ed etico, il rispetto per la condizione dei malati. In Usa il tasso di utilizzo di oppiacei nella terapia del dolore cronico benigno è tuttavia elevato; anche in Italia, grazie alla legge 38/2010, è così, mentre è molto limitato quello di cannabis e ha costi elevati. A livello di efficacia analgesica e fisica, i benefici ci sono, soprattutto a livello psicologico, e sappiamo bene che chi soffre di dolore a lungo andare risente di problematiche sociali, relazionali e anche private. L’efficacia sul dolore fisico è comprovata, ma scontiamo un po’ di pregiudizio e di paura. Al momento è così”.
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