Caporalato nel Padovano: “Centinaia di indiani trattati come schiavi”

La denuncia di Adl Cobas dopo le indagini della Procura: nella logistica e nella metalmeccanica tanti casi di sfruttamento. “I controlli sono inefficaci”

Cristiano Cadoni

PADOVA. Era noto da tempo ed era stato denunciato da Adl Cobas sei anni fa a Verona, e poi tante altre volte segnalato all'Ispettorato del lavoro, il sistema illegale di reclutamento di lavoratori indiani, quasi tutti del Rajasthan, sul quale nei giorni scorsi si sono accesi i riflettori della Procura di Padova, che ha sospeso dall'attività un imprenditore indiano, accusato di intermediazione illecita e sfruttamento del lavoro, e che, a seguito di un'indagine del Comando provinciale della Guardia di Finanza, ha denunciato quindici persone, sequestrando beni e bloccando conti correnti per 750 mila euro.

La rete - stando a quando raccontano oggi i sindacalisti di Adl Cobas - opera in Italia da una ventina d'anni e negli ultimi dieci si è ulteriormente allargata, procurando manodopera per i grandi magazzini della logistica e per varie industrie del settore metalmeccanico, soprattutto nel Veneto e anche in provincia di Padova.

Al vertice del sistema ci sarebbe l'indiano Tanwar Tarachand, detto Taru, in Italia da prima del 2000. Un imprenditore di 55 anni che grazie al reclutamento di connazionali si sarebbe arricchito, tanto da costruirsi una casa "da re" nel suo Paese, mentre in Italia avrebbe almeno un paio di villette, a Pontevigodarzere e Campodarsego, oltre a un numero imprecisato di case, intestate a prestanome, dove ospita fino a 50 uomini contemporaneamente. Da ognuno di questi, oltre a una somma fra i 5 e i 15 mila euro, richiesta per garantire il viaggio verso l'Italia e il permesso di soggiorno, si farebbe pagare 300-350 euro al mese per un posto letto in stanze sovraffollate, dentro case vicine ai luoghi di lavoro.

Gli operai, che arrivano in Italia senza conoscere la lingua e praticamente nulla del Paese che li accoglie, sarebbero completamente in balìa di Taru che li "fornisce" a cooperative e aziende, dove gli indiani lavorano fino a 16 ore al giorno, a volte pagati in modo quasi regolare, altre volte sfruttati con contratti capestro e trattenute illecite imposte loro dai caporali. Ribellarsi, in un sistema costruito su minacce e ritorsioni fisiche, è praticamente impossibile. Chi lo fa, rischia di essere picchiato o licenziato. «Ma potrebbero fare del male anche ai nostri familiari in India», raccontano i lavoratori indiani. Perciò tutti sanno, nessuno parla, nessuno denuncia. E chi si iscrive al sindacato, subisce minacce ancora più pesanti oltre a decurtazioni più o meno regolari dello stipendio.
Quei pochi che hanno trovato il coraggio di alzare la testa, si sono rivolti ad Adl Cobas, che oggi rilancia la sua denuncia: «Nel 2018 c'erano già oltre 400 lavoratori indiani arruolati con questo sistema da Taru e sfruttati in varie cooperative in appalto, anche nel Padovano». Adl Cobas aveva segnalato anche gli appartamenti dove sono ospitati gli indiani, fino a 40 tutti insieme: uno all'Arcella, uno a Pontevigodarzere, due a Campodarsego, due a Mestrino.

«A Padova ci sono 500-600 indiani che conoscono questa situazione e nessuno parla», dice uno dei lavoratori che lavora in un'azienda metalmeccanica vicino al capoluogo e che dice di essere stato preso a pugni quando ha provato a chiedere più sicurezza, perché si sentiva esposto a rischi. «Il sistema si regge anche grazie alla complicità degli imprenditori che accettano questo caporalato, danno carta bianca a Taru e gli permettono di gestire i lavoratori con minacce continue di ritorsione». Adl Cobas ne ha anche per l'Ispettorato del lavoro: «I controlli sono inefficaci se solo adesso e solo in minima parte stanno mettendo in luce queste gravi irregolarità».

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