Centro romano nato lungo la via Aurelia che conduceva all’antica Acelum

FRANCESCO JORI
Non è da tutti recare la propria anagrafe fin dal nome. Che Loreggia abbia radici quanto meno romane, non lo dimostrano soltanto le ancora evidenti tracce della centuriazione del territorio disposta da Augusto, ma soprattutto la sua denominazione ufficiale, che deriva dalla via Aurelia, costruita nel I secolo avanti Cristo su mandato del proconsole Lucio Aurelio Cotta, e utilizzata per collegare Patavium con un’altra località di primo piano dell’epoca, Acelum, l’odierna Asolo. Oggi si chiama statale del Santo, e ha dovuto aspettare per decenni un’alternativa almeno pari a quella garantitale dall’antica Roma.
Proprio l’esistenza di un asse di collegamento così importante espone tuttavia Loreggia più di altri centri alle devastazioni portate dalle ondate di barbari in arrivo nella seconda metà del primo millennio, una volta dissolto l’impero. Con un percorso carsico tipico della stragrande maggioranza del Padovano, riappare alla luce della storia solo molto più tardi, per la precisione nel 972, quando viene citata in un documento che reca in calce l’autorevole firma dell’imperatore Ottone I di Sassonia.
Sta scritto nel suo destino di essere terra di confine: lo era già ai tempi dell’antica Roma, quando il Muson Vecchio segnava lo spartiacque tra l’agro patavino e quello facente capo ad Altino; continua a esserlo nel Medioevo, esposta com’è alle lotte tra padovani e trevigiani: in uno di questi scontri, nel 1229, viene messa pesantemente a sacco, come ci riporta una cruda cronaca dell’epoca. La musica continua nel Trecento, quando i Carraresi divenuti signori di Padova perseguono le loro mire espansionistiche verso il Friuli; e ancora una volta Loreggia si trova sulla rotta degli opposti eserciti.
È solo con la Serenissima che il paese può finalmente imboccare un lungo percorso di pace, anche qui segnato tra l’altro da un’ampia opera di sistemazione idraulica che tiene a bada i vari corsi d’acqua presenti sul territorio (Muson, Rustega, Marzanego), tutti dall’andamento bizzoso, ma anche dal sorgere di ville patrizie, a cominciare dalla Polcastro, fatta costruire nella prima metà del Cinquecento da Sigismondo Polcastro, medico di fama oltre che docente all’università di Padova; un suo successore, Girolamo, riceverà nel 1811 da Napoleone il titolo di conte e la nomina a senatore del Regno d’Italia.
Il parco dell’edificio viene ridisegnato nell’Ottocento da Giuseppe Jappelli. Nel frattempo, il complesso è stato acquistato dalla famiglia di quello che a ragione si può ritenere l’esponente più illustre di Loreggia, sia pur adottivo, Leo Wollemborg, capace di farne risuonare il nome addirittura a Parigi davanti al pubblico delle grandi occasioni: succede nel 1889, quando nella “ville lumière” si inaugura l’attesa Expo universale (in quell’occasione viene inaugurata la Torre Eiffel), e lui va ad illustrarvi la sua creatura da pochi anni aperta nel suo stesso paese, la prima Cassa rurale italiana.
Quando va a spiegare ai francesi la sua idea, il personaggio ha appena 30 anni, ma già da sei ha messo in piedi una realtà rivoluzionaria per l’epoca. Figlio di genitori tedeschi di Francoforte sul Meno trasferitisi a Padova, laurea in Giurisprudenza con una tesi sull’autonomia dei Comuni, Wollemborg ha deciso di piantar le tende a Loreggia nella sontuosa villa. Ma non è uno snob, partecipa alla vita della gente: così si accorge dell’esistenza della diffusa piaga dell’usura, che colpisce soprattutto le famiglie contadine, costrette a indebitamenti da strangolamento per poter garantirsi quel che serve per la loro attività. —
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