Clementine Hoogendoorn Scimone: la musica, l'amore, i Solisti Veneti

Il racconto di una lunga vita di passioni e di avventure. La morte un anno fa di Claudio, il Maestro. Un grande dolore, un nuovo inizio

PADOVA. La prima volta che si innamorò, Clementine Hoogendoorn aveva sei anni. La guerra era appena finita, la vita stava cercando di tornare alla normalità e non era facile per nessuno e in nessun luogo. Non lo era nemmeno in Olanda dove lei, nata per caso in Germania, viveva da quando aveva poche settimane.

Le famiglie, decimate dalla morte o dalla necessaria scelta di un nuovo Paese nel quale ricominciare, si ricompattavano attorno alle proprie consuetudini, anche attorno alle passioni. E fu così che la bambina arrivò a un concerto della Residenz Orchestra dell’Aia. Non ricorda il programma, ma ricorda che il musicista era un uomo: «Era la prima volta che sentivo un flauto suonare. Non avevo mai sentito nulla di più bello, di più celestiale. Decisi che nella mia vita avrei fatto quello: avrei suonato quello strumento, avrei creato quel suono».

Stile e riservatezza

Clementine Hoogendoorn Scimone ha attraversato una lunga vita di passioni, d’amore e di musica; è una signora di squisita eleganza, che ha avuto in dono uno stile raro, e un carattere che si intuisce d’acciaio dietro l’apparenza di un aspetto fragile. Ha coltivato una smisurata cultura, ha trasmesso conoscenza, è stata colonna invisibile di una delle più brillanti imprese musicali italiane dello secolo scorso: è rimasta, quasi sempre, dietro le quinte.

SANDRI-AGENZIA BIANCHI-PADOVA - CLEMENTINE SCIMONE
SANDRI-AGENZIA BIANCHI-PADOVA - CLEMENTINE SCIMONE

Poco più di un anno fa, improvvisamente, si è ritrovata al centro: Claudio Scimone, il Maestro, il compagno di tutte la sua vita se n’è andato e lei si è ritrovata erede di quell’impresa, i Solisti Veneti, che senza più una guida ma con ancora tanta bellezza da offrire, non potevano spegnersi. Li ha presi per mano, ne è diventata il punto di riferimento: li ha traghettati alla nuova direzione musicale di Giuliano Carella, che affianca in qualità di direttore artistico. E, conservando quella riservatezza che è nel suo stile, è diventata un punto di riferimento culturale in città.

La lunga attesa

«Sì, quel giorno all’Aia decisi che il flauto sarebbe stato la mia vita, ma non ci volle tanto a scoprire che avrei dovuto aspettare a lungo per poterlo suonare. Il flauto non è adatto alle mani di un bambino, lo studio non può iniziare, generalmente, prima dei dodici anni. Nell’attesa, mi accontentai del pianoforte».

Quando il tempo finalmente arrivò, la ragazzina non aveva cambiato idea: «Era tutta la mia vita. Anche la scelta della scuola superiore fu per me meno importante. In Olanda gli studi classici duravano sei anni; quelli scientifici e linguistici cinque. Scelsi il linguistico, perché le lingue le sapevo già e ci avrei comunque messo un anno di meno».

Del giorno del diploma ricorda i libri, lanciati nel canale vicino alla scuola: «Ero finalmente libera». Aveva meno di vent’anni, arrivò al Conservatorio di Milano: «Per il diploma di flauto servono sette anni di studi, mi esaminarono e mi ammisero al sesto. Peccato che al momento di presentare le carte ci si rese conto che non avevo mai studiato teoria né solfeggio. A salvarmi fu una donna straordinaria, Anita Terribili. Prendevo lezioni nella sua casa di via Bajamonti: in due mesi mi preparò all’esame di teoria, che passai da migliore del corso. E non volle essere pagata: mi chiese solo di suonare a Monza, in Duomo, in un concerto per flauto e arpa. Quello che lei era il compenso, per me era la gioia più pura».

L’alba dei Sessanta

Era l’alba degli anni Sessanta, Milano era una promessa. Lì i giovani musicisti di talento trovavano lavoro. La giovanissima Clementine Hoogendoorn entra nell’Orchestra Sinfonica della Rai, e lavora anche nell’Orchestra Ritmica. Incide classica, ma anche pop: è quella l’Orchestra che registra in studio i successi di Sanremo.

Il tempo libero i giovani dell’ambiente musicale lo passano insieme; c’è anche i ragazzo alto, un siciliano che vive a Padova e ha la musica nelle vene. Ha appena fondato un’orchestra, si chiamano Solisti Veneti. Si incontrano spesso, stanno volentieri insieme. Si direbbe che lui la corteggi, e che a lei la cosa piaccia; ma quando lui la porta alla Scala, all’opera, perché quella sera canta la Callas, lei capisce che la cosa si fa seria: «Gli dissi, Claudio, guarda che anche se mi porti ad ascoltare la Callas io non ti sposo. Mi rispose di star tranquilla: di sposarsi non aveva nessuna intenzione».

Eppure, Clementine che già teneva concerti e riceveva applausi in Italia e all’estero, a quel punto si era già innamorata: un’altra prima volta, e non meno accidentata.

 

Un mazzo di rose

«Finì che ci fidanzammo. O almeno, ci provammo». Non riuscì tutto proprio alla perfezione: «La festa di fidanzamento, voluta soprattutto dalle famiglie, doveva avvenire a casa mia in Olanda. Eravamo lì ad aspettare, ma Claudio non arrivava. Finalmente suonano alla porta, apriamo e compare un enorme mazzo di rose. Solo che dietro le rose non c’era Claudio, c’era un fattorino». E il fidanzato?

In fuga, letteralmente: «Così la raccontava dopo: preso dal panico, si era messo una mano davanti agli occhi, con l’altra aveva fatto girare un mappamondo e aveva puntato il dito giurando che dov’era era, e ci sarebbe andato. Mentre io lo aspettavo per fidanzarmi, lui era finito al Polo Nord». Furiosa? «No, direi esterrefatta».
Un assaggio della vita imprevedibile che di lì a poco sarebbe arrivata: «Ci sposammo nel 1964 in una piccola chiesa di Verona. Io ero in bianco, ma corto. Un tailleur».

Il viaggio di nozze, in Africa: «Tre settimane, quando l’Africa era Africa davvero. Al nostro ritorno, trovammo il palazzetto di Pontecorvo perfettamente sistemato, ci aveva pensato mia suocera. Si chiamava Wanda Diena: è la persona più adorabile che io abbia incontrato nella mia vita, è stata certamente anche la mia migliore amica. Quando se n’è andata mi ha lasciato un vuoto enorme, ancora oggi mi manca».

La vita con il Maestro era un’avventura continua; lui girava il mondo, lei coltivava i suoi grandi amori. «Un giorno mi dice “sai che al Conservatorio di Rovigo c’è un concorso? cercano un docente di flauto”. Non sono fatta per insegnare, gli dico. E lui “come fai a dirlo se non lo hai mai fatto”. Beh, insisto, allora dimmi cosa devo fare. “Non ne ho idea” mi risponde “informati”. Era fatto così, mai avrebbe messo davanti il suo nome».

Il concorso fu vinto, Hoogendoorn Scimone iniziò a insegnare: prima Rovigo, poi per molti anni Padova. «Ne ho incontrati, di talenti. È stato così bello. La musica andrebbe insegnata a tutti: un piccolo ascolto di Bach, ogni giorno. E senza lasciarsi distrarre da altro. Io non tollero la musica nei negozi, al ristorante: è solo rumore, a volte me ne vado proprio. Ascoltare musica per me significa non lasciarsi distrarre, fare solo quello».

Due addii

In un solo anno Clementine Hoogendoorn Scimone ha perso il doppio amore della sua vita: il Maestro è morto, e il flauto ha dovuto abbandonarlo. «Pesa mezzo chilo e viene impugnato sempre allo stesso modo. Dalle cinque alle otto ore al giorno, per anni: normalmente, la mano di un flautista cede molto prima di quanto è successo a me. Ma ora proprio non posso più».

Quelle mani ancora così belle non riescono però a rinunciare alla musica: «Penso che inizierò a studiare il clavicembalo. Ne possediamo uno, è la copia di quello di Bach, è stato fatto a Parigi per Claudio che lo desiderava così tanto e che lo ha tanto amato. L’ho fatto accordare, di recente: lui, lo sapeva fare ma ora non c’è più».

Nel tempo libero cammina molto, lungo una spiaggia anche in inverno può farlo per ore. È impegnata nella gestione dei Solisti («basta che non mi si chieda di fare conti»), dalla finestra di uno dei salotti della sua splendida casa guarda il cielo che cambia colore (le ore, le stagioni), quinta spettacolare oltre le cupole e le guglie della Basilica del Santo. «Ho vincolato tutto» dice «quando noi non ci saremo più non voglio che di questo posto si faccia scempio».

Lo sguardo sulla città

Quando esce di casa si innervosisce, a volte: «Padova, così bella, rovinata da un arredo urbano così invadente. Questi cestini, questi vasi di fiori. Con la politica non voglio avere a che fare, ma per sei mesi vorrei stare nell’ufficio che decide queste cose. Andrei per sottrazione, via tutti questi orpelli che deturpano. L’ho anche chiesto, ma mi hanno detto che non si può».

Non ama i supermercati che spuntano ovunque: «In Prato della Valle, ma come è possibile?», e nemmeno le bancarelle del Natale: «Che ingiustizia nei confronti dei commercianti. Lottano tutto l’anno contro la crisi e le tasse, e nei due mesi in cui potrebbero vendere arriva questa invasione di chincaglierie a portare via clienti».
Alla vigilia di un anno così tondo, 2020, a Padova «auguro l’auditorium», ai padovani «una città bella come può essere», ai Solisti «tutto il bene possibile». A se stessa non lo dice, ma il suo sguardo è di chi ha molto da dare, e un cuore ancora innamorato. I progetti belli crescono sul terreno fertile di ricordi bellissimi. —

 

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