“Codice Italia”, la memoria non accende emozioni

Gli artisti selezionati da Trione sono intenti a fare malinconici conti con il passato Un’eleganza fin troppo sobria toglie anima anche a grandi sperimentatori
Di Virginia Baradel
INTERPRESS/gf.tagliapietra. 05.05.2015.- Biennale di Venezia. ITALIA -MIMMO PALADINO
INTERPRESS/gf.tagliapietra. 05.05.2015.- Biennale di Venezia. ITALIA -MIMMO PALADINO

di Virginia Baradel

Dispiace dirlo, in giorni in cui il patriottismo è alle stelle, ma il Padiglione Italia non esalta. Arrivando da uno slalom alle Corderie tra installazioni cariche di sollecitazioni visive, intellettuali, scenografiche, il Padiglione alle Tese appare così affetto da sobria eleganza da far pensare che la memoria più che un vulcano, sia un repertorio per esercizi di stile. Codice Italia è un titolo talmente ampio che ci può stare dentro tutto, come si può vedere, da Dürer a Pasolini. E, soprattutto, ci starebbero comodi un’infinità di artisti, praticamente tutti. Non solo gli Anacronisti, lanciati da Calvesi giusto trent’anni fa, ma anche i più concettuali hanno fatto i conti con la storia, o per assumerla o per profanarla. Dunque Vincenzo Trione ha scelto 15 artisti, di diverse età e poetiche, ben distribuiti negli annali della storia dell’arte contemporanea e dato loro l’input della memoria, possibilmente italiana. Ogni artista ha svolto il suo compito, ha fatto i conti con l’entità del passato che più lo ha conquistato o allarmato e ha creato un’opera ad hoc.

Alla Biennale come a Sanremo non si rinuncia. E dunque anche due superbi sperimentatori d’antan, e tuttavia ancora poco noti al grande pubblico dell’arte come Aldo Tambellini e Paolo Gioli, si ritirano nella propria stanza candida e minimalista e allineano ricerche e ossessioni in forma ordinata. Ottimo, sacrosanto che ci siano, peccato che siano così ripuliti, digeribili, incasellati. Kounellis e Paladino presentano due opere da par loro. Putrelle e paletots neri in euritmica sequenza il primo; longilineo gigante vitruviano con fioritura di tralci, cabala e geometrie, il secondo. Longobardi traccia e fonde in svettanti paraste, cenni di figura nel suo graffiante e lieve espressionismo. Claudio Parmiggiani, guardando al Naufragio della speranza di Friedrich, incaglia una possente ancora su una parete di specchio che va in frantumi. Un po’ spaccona ci pare Vanessa Beecroft che, pur avendoci abituato alla teatralità algida e corale delle sue modelle, ora rifà il verso a Etant donnés e fa intravedere, tra due lastre di marmo, un cumulo di rovine classiche con al centro un bronzo che richiama il nudo di Duchamp. Se pensiamo al lavoro di Sarah Lucas al Padiglione inglese, feroce, ironico, figlio di secondo letto di Louise Bourgeois, comprendiamo come talvolta il passato possa essere un’ingombrante vanità. Più convincente Marzia Migliora con una potente natura morta: una distesa di vere pannocchie, con i semi color tramonto, chiuse tra due (veri) armadi della memoria. La sua.

Samorì è più funesto del solito con un Deposto sul sepolcro, rigido e privo della testa avvolto in un “Lienzo”. Melancholia più che Mnemosyne sembra la musa del Padiglione Italia: l’opera del più giovane degli artisti, Luca Monterastelli, s’intitola “Una malinconia della carne” suddivisa in cinque elementi verticali di “gesso armato”. Decisamente più felice il monumento equestre informale in polistirolo e terra, tra Medardo e Mastroianni, del duo Alis/Filliol. Di grande valore i tre Omaggi all’Italia degli stranieri William Kentridge, Peter Greenaway e Jean-Marie Straub. Commovente, come sempre, l’installazione di Kentridge che potrebbe avere come sottotitolo da Remo a Pasolini, i cui corpi abbattuti sono evocati in stencil a parete e in cartone sospeso. Estetizzante, più del solito, la danza dei frammenti iconografici nella videoinstallazione di Greenaway. Ruvido e disadorno, magistrale alla maniera di quegli anni e di quel cinema (si tratta della ripresa del film “Lezioni di storia” del 1972 del regista culto della nouvelle vague francese) il dialogo scafato tra due romani anni settanta in veste di antichi, sulla corruzione e altri malanni. Forse Straub, Gioli e Tambellini bastavano a raccontare un’antigloriosa bensì acutissima, introspezione contemporanea.

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