Com’è cambiato il Caffè in 200 anni
Il Caffè Pedrocchi nasce dall’incontro tra il genio commerciale del caffettiere Antonio Pedrocchi con quello artistico dell’architetto Giuseppe Jappelli. Lo stabilimento, aperto al pubblico di giorno e di notte (fino al novembre del 1916), è un museo di fiammeggiante eclettismo e un tempio dell’accoglienza. Fu inaugurato il 9 giugno del 1831. Ma nel 1815 Stendhal ci era già stato, corroborato dopo le infinite avventure amorose, degne di un Simenon (una donna per ogni giallo) dagli squisiti zabaioni che lì si servivano. Oltre all’edificio straordinario, ha la forma di un pianoforte a coda con la tastiera su piazzetta Pedrocchi, fu straordinario l’impatto sull’urbanistica cittadina: il Caffè si innesta e diventa il polo del trifoglio delle piazze, di palazzo Moroni e del Bo.
Il Pedrocchi è dei padovani: Domenico Cappellato Pedrocchi, figlio adottivo di Antonio, con testamento del 10 giugno 1891 lascia l’immobile al Comune di Padova. L’atto testamentario è puntiglioso, ogni oggetto viene inventariato. Così si viene a sapere che nel lascito era compreso un cavallo che doveva essere mantenuto fino alla morte, un bel pacchetto di azioni del canale di Panama e una certa quantità di oro in lingotti. Tutte cose perse per strada.
È tradizione che gli avventori si possano accomodare in sala Verde senza consumare. Per anni il Caffè è stato centro della vita intellettuale della città, frequentato da docenti universitari, studenti, politici locali. Ha avuto momenti di imbarbarimento, una perdita di smalto dovuta al cambiamento dei costumi, ma più volte si è sentita la necessità di rinnovarne i fasti. In capo a decenni di decadenza, quando lo storico Caffè era diventato un foyer di vecchietti che si consolavano con una tazzina, nel 1994 l’amministrazione comunale decide di dotarsi di un progetto generale di recupero dello stabilimento di cui fu incaricato l’architetto Umberto Riva, un compito difficile che suscitò cocenti polemiche soprattutto per qualche guizzo innovativo.
Piaccia o no, oggi il Pedrocchi volge dignitosamente la sua funzione anche se non è più la stella polare della città in fatto di eleganza e comfort. Resta comunque splendido nelle sale del piano nobile e in quella bomboniera che è la sala da ballo intitolata a Rossini. Al Caffè, un tempo, si decidevano le sorti della città, si discuteva d’arte, di filosofia, di musica e musica splendida si faceva. Ora questa funzione si è un po’ appannata, ma non dipende da un degrado che non esiste per la cura profusa nella manutenzione ma, come s’è detto, dal fatto che la vita sociale, l’agorà dei dibattiti si è smorzata di fronte alla privatizzazione del dialogo, imprigionato dall’ipnosi dello schermo televisivo. Il Caffè Pedrocchi fu il grande evento architettonico padovano del secolo diciannovesimo, nascendo in anni di piena dominazione asburgica ha un disegno più simile al Kaffehaus austriaco che non alla bottega veneziana da cui il profumo del caffè si espande nelle Venezie. Ha anche un’appendice e una merlata torre massonica. Sulla porta che si apre sulla piazzetta ci sono però due leoni di pietra più inglesi di una “cup of tea”. Al Caffè era annesso il Ristoratore e fino a una decina di anni fa era ancora attivo in vicolo Pedrocchi il grande albergo al Leon Bianco. «Eccoci arrivati – scrisse il Selvatico - di fronte ad uno di quei rari edifici che, per la opportunità loro e per la bene ideata distribuzione, rispondono a un bisogno sentito da tutti e servono a collegare insieme gli elementi morali e materiali di un paese se, per caso, fra loro disgiunti». Sarà ancora così?
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