Con Celentano parla la musica, mezzo secolo di canzoni

VERONA. È ben curiosa la gabbia che Adriano Celentano è riuscito a costruirsi intorno. Quando va in tv a sermonare, i più si chiedono «perché, piuttosto, non canta?». Se poi va in tv a cantare, ecco lo stupore: «come mai non parla?».
Sale l’inquietudine via facebook e via twitter nella Notte dell’Arena: tre canzoni, cinque canzoni, sette canzoni. Fine del primo tempo addirittura: e ancora non ha sentenziato. Eppure, che meraviglia ascoltare queste canzoni e questa voce. Finché è in concerto, Celentano resta una delle più belle voci italiane da ascoltare. Tanto che fin dal pubblico pagante (a Sanremo era successo, ma dicevano che c’erano gli infiltrati) si leva un chiarissimo «È meglio se canti».
Puntualissimo, annunciato da un volo di elicottero che mostra Verona nelle luci della sera e l’Arena gremita, appare sul palco. Ha mandato avanti due giovani - Cristina Bianchini giornalista del Tg5, e Valerio Amoruso attore - a leggere parole di Rifkin e Latouche che tanto gli sono care. Siccome lo spettacolo si chiama “RockEconomy”, all’inizio la parte Economy l’affida ai due recitanti. La decrescita, il miglioramento della qualità della vita, la bellezza delle città, l'accesso all'acqua potabile e la qualità dell'aria. E poi lavoro, salute, cultura. «Lo sviluppo e l'economia sono il problema e non la soluzione. Basta con la folle corsa al consumo».
Lui tace, si tiene cara la voce per la parte rock, che aggredisce partendo dall’anello di congiunzione, “Svalutation” - anno di nascita 1976, potrebbe essere ieri - e l’Arena, che risponde con un’ovazione.
Segue un crescendo musicale incastonato in una scenografia a tratti cupa. Questo signore dall’informe giacca grigia e dall’inguardabile basco luccicante, ha 74 anni e si muove tra il rock degli anni Cinquanta (“Rit Hot Up”) e il 1999 di “L’emozione non ha voce”; passa da “Si è spento il sole” del 1962 a “Io sono un uomo libero”, scritta da Ivano Fossati nel 2000 passando per “La cumbia di chi cambia”, firmata Jovanotti, datata 2011. Avanti e indietro per mezzo secolo, senza un’incrinatura di voce, senza una sbavatura d’amore da parte del pubblico, che quanto a età è il più trasversale possibile.
Il primo tempo dello spettacolo finisce in pura musica, il secondo in musica ricomincia. In platea, tra Eros Ramazzotti e Paolo Bonolis, tra Gigi D’Alessio e Mogol, c’è anche Al Bano, che si fa sorprendere dalle telecamere della diretta mentre parla al cellulare.
Il sermone sembra partire alle quando le 22 sono passate da dieci minuti; ma è solo un abbozzo, muore lì su un paio di parole buttate nel microfono (una delle due, naturalmente, è “crisi”), poi un minaccioso «Io penso che», e cinque minuti buoni di silenzio. Si riparte da “Cammino”, testo macchinoso ma efficace da “Il re degli ignoranti”, la prova provata che quel che vuol dire Celentano lo può dire – lo ha già detto da decenni - in musica, che gli vien meglio.
E poi ancora vuoti, silenzi, fiamme. Quando la tensione arriva al massimo, sono le 22.20. Celentano sparisce, il palco precipita in un clima apocalittico. Parlerà, ora? Lui guadagna il centro della scena, gli portano una chitarra. È «Il ragazzo della via Gluck». Tutta l’Arena canta con lui. Quattro mesi di congetture, un gran concerto.
Di economia infine fa parlare Jean-Paul Fitoussi, Gian Antonio Stella, Sergio Rizzo. Ognuno fa il mestiere suo: che spettacolo.
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