Con i mattoni: il racconto di Elettra Solignani vincitrice del Campiello Giovani

Bacon, fried eggs and toast with tomato ketchup.
Bacon, fried eggs and toast with tomato ketchup.

Con i mattoni

 

A come Alfabeto

Questa era facile. Ultimamente inizio così.

Faccio questo gioco da sempre: prima ripetevo il nome di almeno uno stato americano per ogni lettera; prima ancora, oltre a un nome di persona per ognuna, cercavo di elencare anche una cosa e una città. Ora tutto ha assunto una funzione più specifica: per ogni lettera, provo a ripetere una parola della mia vita. Parole di uso quotidiano, che ho spesso sulla punta della lingua, parole che sono vecchie amiche e protagoniste di ricordi.

So che è solo un goffo e probabilmente inutile tentativo di riordinare tutti i pensieri ammassati nella mia testa e le sensazioni che mi scorrono sulla pelle; ma sono stanca di passare notti a fissare il soffitto in cerca di spiegazioni o risposte, quindi a volte, mi perdo nel vuoto delle soluzioni che non riesco a trovare e ripeto, ripeto, ripeto. Ripeto l’alfabeto. Come sempre.

Immagino sia una diretta conseguenza della mia predilezione per l’ordine. Prima sistemavo le bambole e gli altri giocattoli, poi ho iniziato a piegare i vestiti e ora, tento di spostare l’ordine che tanto mi soddisfa nella quotidianità, verso l’unica cosa che non ho il potere di controllare: i miei pensieri.

Mi sento come un fragile mozzo, bagnato e infreddolito su un’imbarcazione ondeggiante, che tenta di slegare qualche nodo e teme per la sua vita, mentre frenetico alza gli occhi dalle sue mani insicure - dalle dita che non riusciranno a disfare quel groviglio in tempo - alla tempesta che ruggisce potente e nera all’orizzonte. Le onde nella mia testa sono impetuose, colpiscono lo scafo con ceca rabbia. È così palese: il mozzo cadrà in mare e affogherà. E io non voglio affogare: voglio affrontare il nubifragio con tutta la coscienza che l’avere il controllo può dare. Non mi farò spingere in acqua dalla forza del vento o dalle onde spietate. La mia ancora sarà il timone.

Ogni pensiero accartocciato nella mia testa urla che un capitano sa sciogliere qualsiasi nodo.

Eppure una parte di me sussurra che quello stesso capitano va a fondo con la sua nave, mentre il fragile mozzo viene salvato da una scialuppa. È la stessa voce che per ogni A all’inizio dell’alfabeto suggerisce “Anoressia”.

B come Bilancia

Parole di uso quotidiano per strumenti di uso quotidiano.

Se qualcuno un anno fa mi avesse rivelato che solo pochi mesi dopo avrei riflettuto così a lungo e così spesso in merito a un oggetto banale come una bilancia, non gli avrei creduto facilmente. Eppure più volte al giorno mi ritrovo a fissare quei piccoli numeri neri, che oscillano da un grammo in più a uno in meno, lasciandomi un senso di amaro e sbagliato in bocca, spingendomi a togliere dal piatto qualche maccherone, alcuni cereali.

Se mi avessero detto che tante mie emozioni sarebbero dipese davvero da una bilancia, avrei riso. Ma non rido mentre in bagno, con la porta chiusa a chiave, mi spoglio lentamente e un po’ titubante appoggio prima un piede e poi l’altro sulla sua ruvida, fredda superfice. Ogni volta fisso le mie unghie irregolari – a volte lo smalto è rosso, altre azzurro, altre volte non c’è – e aspetto di vedere comparire un numero sul display. Una conferma in cifre dopo aver sommato altre cifre. C’è qualcosa di estremamente confortante nel calcolo.

C come Calorie

Ci sono storie antiche come il mondo e storie così recenti che ancora lasciano segni sulla pelle: questa appartiene alla seconda categoria.

Era estate, un martedì di Agosto. Sedevo al tavolo della cucina, davanti a me il piatto della colazione: bacon, uova strapazzate e una fetta di pane tostato. Un po’ fuori dall’ordinario e decisamente migliore del solito latte e cereali.

Ho apprezzato ogni boccone della mia colazione: l’interessante contrasto tra le uova morbide e il bacon croccante, che si sposa con il pane perfettamente. Stavo mangiando con gusto quando ho visto la porta della cucina aprirsi e mia madre entrare. Sorrideva di buon umore mentre i suoi eleganti tacchi neri scandivano un leggero ritmo incontrando il pavimento. Era venuta verso di me e mi aveva baciata sulla fronte – “Buongiorno amore” – e io, nel mio pigiama rosa, avevo pensato che era davvero bella, avvolta nei suoi completi formali pronta per il lavoro.

Non ricordo precisamente come era proseguito quel martedì, ma so che la mattina dopo, indossando lo stesso pigiama, mi ero ritrovata davanti al frigo un’altra volta. La confezione di bacon che avevo aperto il giorno prima era ancora sul ripiano all’altezza del mio naso. Ho cucinato ancora la colazione speciale. Nuovamente seduta al tavolo, davanti al mio piatto, non mi sono stupita quando mia madre è entrata. Quel mercoledì erano rossi i tacchi che battevano sul marmo. “Ciao Tesoro” seguito dal tempo di un bacio. Poi ha afferrato una mela, l’ha infilata in borsa e ha pronunciato una frase semplice: “Sembra davvero buono, ma attenzione alle calorie”. Mi ha fatto l’occhiolino ed è uscita, veloce e sorridente come era entrata.

Ricordo di essere rimasta a pensare a lungo, masticando lentamente. L’unica cosa che sapevo allora delle calorie era che sono fonte di energia e quasi mi sorprendeva sentire le mie compagne di classe affermare che volevano assumerne meno. È buffo, dicono che sono una ragazza sveglia, ma non avevo mai collegato quello strano concetto – calorie – all’ingrassare. Nei due giorni seguenti ho scoperto le tabelle nutrizionali: ero stupita che fossero su ogni prodotto, le ho lette attentamente e ho fatto i miei primi conti.

Il venerdì sera, abbastanza fiera, ho comunicato a mia madre che non dovevo preoccuparmi delle calorie perché non ne assumevo certo 2000 e mi sentivo sazia ugualmente. Ricordo che ero di buon

umore: tutto il mondo si lamentava delle diete ed era un problema che non mi toccava. La beata ignoranza soddisfa. Ad oggi, posso affermare a mia discolpa che ero tanto disinformata. Mia madre mi ha guardata e mi ha detto: “Certo che non assumi 2000 calorie E., non sei un uomo adulto. Immagino dovrai assumerne 1200, è in proporzione ad altezza e peso: tu pesi 50 kg e non sei alta neanche un metro e sessanta”.

Questo ha cambiato le cose. È Novembre adesso. Sono molto più informata.

Prima non capivo la necessità di quelle diete ferree, ora invece l’ho fatta mia. Pesare quello che mangio, fare le somme dei valori nutrizionali, non superare mai un certo numero e sperare di ottenere un risultato: funziona così adesso. A volte, quando mi vesto la mattina prima di andare a scuola, noto che i vestiti mi sono un po’ larghi ed è soddisfacente. Ma ora il cibo occupa gran parte dei miei pensieri: non riesco a mangiare senza vedere delle cifre. Toglie molto sapore a qualunque pietanza. È un po’ stressante. Succede anche quando sono gli altri a mangiare: la mia compagna di banco per l’intervallo ingerisce circa 300 calorie con una merendina e una bevanda zuccherata. Mi sembra una pazzia.

D come Dormire

Se la mia nuova abitudine è quella di assegnare un numero a tutto ciò che mastico, quella di dormire è andata perduta. Ultimamente la sola idea mi disturba.

Arriva quel momento la sera che fa capire che è tempo di smettere ogni attività per andare a letto. Le stoviglie della cena sono state sistemate mentre sono state disposte quelle per la colazione, mio padre guarda svogliatamente la Tv e mia madre in camera sua. Lo si potrebbe definire un momento di tranquillità domestica, ma per qualche motivo, il mio cuore inizia a battere così forte da non poterlo ignorare e non riesco più a pensare. La sera mi agita per qualche ragione che non conosco e

vorrei scoprire. Nonostante questo però, in qualche modo, arrivo nel mio letto e aspetto di addormentarmi. Devo attendere almeno qualche ora. Guardo il soffitto, mi giro, penso a tutti i grovigli che sono nella mia testa in attesa di essere riordinati, mi viene fame, bevo un bicchiere d’acqua e aspetto. Quando non me la sento di fissare il soffitto senza ricevere altro che silenzio, oppure, quando so che nel futuro prossimo mi troverò a mangiare in un determinato locale, leggo menù su menù e tabelle nutrizionali su internet.

Una notte, quella che precedeva una giornata durante la quale mi sarei recata con le mie amiche a pranzare e fare compere al centro commerciale, sono andata sul sito di quest’ultimo per scoprire che genere di cibo era disponibile. Potrebbe sembrare incoerente, ma quando ho visto solo nomi di fast food, ho ringraziato il cielo. Tutti i loro siti presentano l’apporto calorico di ogni panino, menù con bibita o dolce. Ho letto molto quella volta. Il giorno dopo mi sono sentita come quando si guarda un film di cui già si conosce il finale.

Woman with veil
Woman with veil

E come Il mio nome

Una scelta piuttosto ovvia da parte mia, ma non certo da parte dei miei genitori.

Mi piace il mio nome, ogni sua lettera è in armonia con le altre. Viene dalla mitologia, ha un grande passato. Per me è fonte di molti complimenti. Ho capito che il mio nome è la cosa che più apprezzo di me stessa. Immagino sia perché preferisco l’idea nascosta al suo interno più della persona che lo porta. Adesso è un bel nome per qualcuno che non è niente di speciale. Sembro una scadente e sbiadita versione di me stessa. Mi guardo allo specchio e se anche il viso, gli occhi, sono sempre quelli, non sono più miei. Il mio nome è andato a una sconosciuta.

F come Famiglia

Mia madre è un avvocato, mio padre è un avvocato. Non ho fratelli o sorelle. In generale, tutto funziona bene, è una famiglia ordinata e viviamo in un appartamento tranquillo nel quale gli oggetti sono sempre al loro posto e gli eventi accadono come erano stati programmati.

Amo davvero i miei genitori, ma alle volte ho l’impressione che non mi vedano (So che non si dovrebbe amare con i “ma” e con i “però”, è un po’ triste farlo). Hanno notato che sto più attenta a quello che mangio, che peso il cibo, che faccio più sport e che sono dimagrita. Ma non credo abbiano percepito il cambiamento che è avvenuto nella mia vita. Sono contenti che io mi prenda cura di me stessa, ma mi sembra che davvero non capiscano. Neanche io capisco, però sono conscia che c’è qualcosa di diverso, forse addirittura di sbagliato. Anche i miei genitori, a volte, sembrano un riflesso di quello che erano. Una versione un po’ più stanca. Ci sediamo allo stesso tavolo della cucina e pranziamo, ceniamo insieme, magari guardiamo un film sul divano. Eppure siamo così lontani.

“Brava, fai bene a non mangiarli” mi ha detto mia madre qualche giorno fa, indicando il pacchetto di biscotti al burro che avevo spostato per prendere la confezione di fette biscottate. Sono stata brava, sì, ma a quei biscotti ci pensavo da tutto il giorno. Sono ancora nella credenza, ogni volta che la apro sono davanti a me.

G come Gabbia

Quella della gabbia è una sensazione impossibile da comparare a qualunque altra. Uno dei misteri che affolla la mia testa è in merito a ciò: questa costrizione mi circonda, o è interna a me? Alcune

volte, mentre cammino per strada e noto tutte le componenti di quello che vedo – il marciapiede, il contrasto tra ciò che è solido e l’aria, il cielo nella sua mutevolezza – cresce all’altezza del mio stomaco uno scandaloso senso di ansia. Mi sento chiusa e costretta in qualche spazio angusto. Mi fa male il petto, respirare è più difficile: non ho una via d’uscita dal mondo intero. Non so dove andare. Non ci sono luoghi che riesco a desiderare.

Altre volte, ciò che mi divide da ciò che mi circonda è dentro di me: sono testimone di eventi, accadimenti, vedo persone e in qualche modo partecipo alle loro vite. E durante questo processo che mi vede come cittadina, compagna di classe, adolescente, protagonista, una volta come fidanzata, sento il mio cuore ricoperto da una specie di velo sottile, impermeabile. Che impedisce a qualunque cosa di toccarmi, di raggiungermi. Qualche amico va al cinema e mi invita, visito il centro città la domenica pomeriggio, tutti impazziscono per una nuova serie tv, martedì c’è una festa di compleanno, sabato le mie amiche vanno a ballare. Tutto mi scivola addosso, niente riesce ad attraversare il velo.

H come “Ho fame”

All’inizio formulavo questo pensiero abbastanza spesso, per noia, per avere qualcosa da fare, poi perché ho iniziato davvero a limitare i miei pasti, ma comunque, a parere mio, si mangia soprattutto per convenzione sociale.

Le mie intere giornate sono scandite dagli orari dei pasti: mi alzo e subito mangio; poi mi siedo per ore su una sedia e divento spettatrice di vite che si incrociano, cadono, proseguono, di volti senza identità che guardano senza vedere e il mio pensiero va al pranzo, a quando mi siedo su un’altra sedia con il permesso di mangiare. Mastico lentamente ogni boccone, mentre le conversazioni dei miei genitori mi scivolano sulla pelle. “No, non voglio il formaggio sulla pasta, grazie” e faccio

calcoli e mastico. Mi alzo dalla sedia, i miei occhi incontrano l’orologio sulla parete della cucina. Conto quante ore del pomeriggio mi separano dalla cena. E so già che dopo di essa, quando insonne stringerò le coperte durante la notte che tanto temo, penserò a cosa mangiare per colazione. Ma non è fame: sono sazia quasi sempre. Addirittura, spesso, mangio solo perché il pasto è imposto dagli orari. Spesso non sento il bisogno del cibo, è più una leggera volontà di riempiere qualcos’altro. Un buco, forse una mancanza. Mi pervade una sorta di fretta, di ansia, che fa mutare il mio concetto di tempo. La fretta implica che io abbia qualcosa da aspettare.

Un altro mistero per questo alfabeto: cosa desidero? Cosa sto aspettando?

I come Insoddisfazione

A quanto si dice, questa parola appartiene alla vita di molti. Per me impersona una specie di coinquilina, madre causa di tanti effetti.

I destinatari del mio impegno sono la mia persona, la scuola e poco altro. Ogni passo che compio per raggiungere i miei obiettivi, viene seguito da questa coinquilina. L’insoddisfazione mi accompagna fedelmente. Ho 17 anni e non mi distinguo per caratteristiche peculiari, posso vantare di avere il controllo unicamente sul mio corpo e sullo studio.

Parole che ormai conosco bene affermano che sono una brava studentessa. Sottolineo, prendo appunti, ripeto ad alta voce, non sono mai sfornita di post-it. La scuola non mi dispiace, è un campo nel quale riesco bene. Sono la prima della classe, eppure questo valore aggiunto, alla luce di molte riflessioni, non può fare altro che perdere importanza. Durante alcune lezioni, vedo gli occhi di certi miei compagni di classe – valutati meno di me – illuminarsi per qualche nozione o frase riportata dal professore di turno, li sento parlare dei sogni che hanno per il futuro, di come amino una certa materia anche se alle volte non ricevano soddisfazioni. Ho capito che alcuni di questi ragazzi sono

destinati a qualcosa, hanno dei progetti e un posto che li aspetta. Questo è il punto, qui dimora la mia insoddisfazione. I miei voti sono numeri senza significato, imparo e studio per il fine unico di ripetere quello che sento ripetere. Non ho uno scopo e neanche una caratteristica che mi renda speciale. Nasce puntuale il pensiero Devo fare di più dettato dall’insaziabile sensazione che mi accompagna in ogni percorso. Quella stessa che si riflette con me quando mi guardo allo specchio perdendomici dentro.

Osservo il mio riflesso e capisco che posso fare di meglio. Posso rimuovere ogni eccesso e ho intenzione di farlo, per me stessa.

Potrei gridarlo da quanto sono convinta: lo sto facendo per me stessa. Per guardarmi allo specchio e riconoscermi, piacermi.

Woman walking along edge of infinity pool, low section
Woman walking along edge of infinity pool, low section

L come Legame

Così come vengono stretti, i legami possono essere recisi. Questa è una storia che non ho voglia di raccontare fondamentalmente perché non mi confonde. Un legame come un nodo, prima aggrovigliato poi sciolto. Un nome che non risuona nel vuoto che mi trema dentro come accadeva qualche mese fa.

Lui era l’amico di un amico e io l’amica dello stesso amico: un inizio un po’ banale forse, ma il seguito di sicuro non lo è stato. Era tutto speciale con lui. Ci siamo conosciuti un sabato sera di Gennaio a una festa a casa di quella amicizia in comune. Lui conosceva solo poche persone e io ero accerchiata dal solito e numeroso gruppo di amiche, compagne di classe che ora percepisco tanto distanti.

Ho seguito il copione, come tutti: ho bevuto una birra, qualcosa di colorato e amaro che non saprei identificare neanche adesso e ho passato buona parte della serata a ridere sul divano con le altre. Due di loro raccontavano per l’ennesima volta quella strana vicissitudine che era accaduta alla gita con tutta la classe. È una storia davvero divertente a dir la verità, la ricordavamo spesso iniziando con: ”Oh, ma ti ricordi quella volta che…”; è quel genere di aneddoto esilarante che senti così tante volte che ridi già all’inizio del racconto perché sai come andrà a finire. Mi sono alzata un po’ riluttante per accompagnare un’amica in bagno, e poi, avendo ovviamente perso il posto sul divano, ho fatto un giro per la casa del mio amico salutando chi conoscevo.

La musica era forte ma l’ambiente mi piaceva, stavo sorridendo tra me e me quando qualcuno ha urtato la mia spalla. Io mi sono girata e anche lui. Di colpo, i suoi occhi hanno incontrato i miei. Ricordo che c’era stato un attimo di silenzio, probabilmente avevo la bocca socchiusa dalla sorpresa. Poi lui aveva toccato delicatamente il mio braccio per chiedermi se mi aveva fatto del male, a me era venuta la pelle d’oca. Quando ho scosso la testa, lui ha sorriso presentandosi. Ho passato il resto della mia serata seduta su una sedia di ferro freddissima su un balcone minuscolo che ospitava solo due sedie e un tavolino a parlare con lui. Era stato strano, diverso e bello. Parlare ore con uno sconosciuto non è il mio genere di cosa, ma stavo lì, seduta, stretta nel mio vestitino nero lasciando che questo ragazzo diventasse il protagonista dei miei pensieri. Ogni tanto qualcuno apriva la porta di vetro che ci separava dalla festa, usciva a fumare una sigaretta e poi rientrava, lasciandoci in quella specie di spazio immaginario che avevamo creato senza saperlo, fatto di emozioni inaspettate e parole non previste.

Ero felice quella sera. Ero felice quando ho trovato un suo messaggio sul telefono qualche giorno dopo e poi molti altri nei mesi seguenti. Ero felice quando siamo usciti la prima, la seconda, la terza e la quarta volta. Ero ancora più felice la quinta volta, quando ci siamo baciati. Ero felice che fosse il mio ragazzo. Ero felice quando mesi dopo abbiamo perso la verginità insieme. Ero felice perché

lo amavo come non pensavo si potesse amare qualcuno e felice perché ero ricambiata allo stesso modo.

Poi è arrivata quella mattina di Agosto: sono arrivate le uova, il bacon poi i calcoli e i pensieri. All’inizio scherzavo a riguardo, sul desiderio di perdere peso. Lui rispondeva a quelle battute come ai pianti che sono seguiti dicendomi che ero bellissima, perfetta, che non dovevo dimagrire e potevo mangiare anche la sua parte di pizza. Devo ammettere che il suo comportamento è sempre stato impeccabile, eppure io gareggiavo con me stessa, costringendomi a non mangiare più di qualche fetta della mia. Sentendomi potente davanti agli avanzi che restavano nel piatto.

Ho avuto la fortuna di trovare un ragazzo premuroso, un ragazzo che baciava ogni mia imperfezione quando capiva che mi vergognavo davanti al suo sguardo. Non sono stata in grado di fare altro che allontanarlo. Ormai è passato un mese, non è molto, ma allo stesso tempo è un abisso. Non so cosa lo spinga a scrivermi periodicamente per chiedermi se sto bene, dopo tutto quello che gli ho detto e dopo tutte le risposte che non ho inviato. Lui si merita parole ricche di significato e io non sono in grado di dargliele.

“Vattene, Leonardo. Questo non è il tuo posto. Davvero, non voglio più vederti, mi dispiace, non credo di amarti.”

M come Mancanza

In genere, nel mio alfabeto, questa è l’iniziale di “menù”, “mondo” o, nei giorni tristi, “morte”. Ma oggi è stata proprio la mancanza a confondere i miei incontrollati pensieri e a farmi sentire la necessità di ripetere ancora una volta lettere su lettere. Sono stesa sul letto nella mia camera, impegnata a guardare il soffitto. Del mio campo visivo è protagonista solo il lampadario, quando abbasso lo sguardo, lo diventano le gambe coperte dai jeans neri, le corte calze grigie, la coperta

rosa e gli altri mobili che silenziosi popolano questo spazio. Le mancanza è una sensazione che comprendo: è sfacciata, palese e impossibile da ignorare.

Oggi, come tanti altri giorni, mi mancano in parte Leonardo, in parte qualche amica allontanata ultimamente o anni fa, mia nonna che si è spenta quando avevo undici anni e il cane, quando ne avevo solo sei. È confusionario ma chiaro. Mi manca tutto quello che avevo prima. La mia vita di quando non ero solo l’ombra di me stessa. Sono vulnerabile e spesso fragile: quando vedo dei bambini per strada che camminano tenendo la mano della loro mamma, piango. Non posso evitarlo. Mi manca essere una bambina, non avere la percezione del tempo e neanche preoccupazioni. Mi manca tenere per mano mia madre passeggiando sul marciapiede.

C’è una foto sulla mensola del camino, in salotto, che riesce a farmi sentire qualcosa ogni volta che la guardo. Sono anni che ci passo davanti, che la osservo con un sorriso o con il cuore come stretto in un pugno. La cornice circonda un ricordo felice: avevo circa sette anni ed ero al parco con entrambi i miei genitori, immagino fosse il pomeriggio di una domenica persa nella primavera, quando ancora mia madre anteponeva la sua individualità al lavoro e mio padre si interessava attivamente del mondo circostante (il cambiamento che è avvenuto in loro non è drastico, la disattenzione si insinua gradualmente). Nella foto compariamo solo io e mio padre, lui mi stringe in un abbraccio mentre rido, con un gelato quasi sciolto in mano e la faccia sporca di cioccolato. Mia madre aveva scattato la foto sorridendo e poi aveva provato a pulire un po’ il mio vestitino – anch’esso sporco di gelato – con un fazzolettino usato, perché non ne aveva altri in borsa. Ricordo che ero una bambina molto felice.

E ora non faccio altro che sospirare. Sospiri che se potessero si tramuterebbero in urla, per denunciare la crudeltà della crescita, che mi ha strappata alla beata ingenuità per inserirmi in questa routine di dubbi, studio e biscotti non mangiati.

N come Nascondiglio

Immagino che tutti abbiano un luogo sicuro, che garantisce protezione e tranquillità. Una specie di tana. L’interessante differenza tra una tana e un nascondiglio risiede nella condizione fondamentale di quest’ultimo: l’esigenza di celare qualcosa, talvolta di celare sé stessi.

Tra ciò che vorrei custodire per me a causa di riservatezza o vergogna, figurano soprattutto pensieri e riflessioni di qualche secondo, più che esperienze o errori. Il nascondiglio per i miei beni fuori dall’ordinario sono io. Meno di un metro e sessanta di statura per contenere tutto quello giace accartocciato nella mia testa.

Voglio tenere segreta l’inquietudine sorta in più occasioni, causata sempre dallo stesso desiderio: sparire, evaporare, non esserci. Non si tratta della morte, quella è un’idea che mi spaventa e non è quella che cerco. Mi riferisco a quella bizzarra sensazione che nasce all’altezza della sterno, quando, piangendo, si cerca di trattenere il respiro incontrollato e riordinare la propria mente. E da questo processo attuato per calmarsi non risulta altro che non c’è nulla che si possa fare e nessun luogo disposto ad accoglierci. Così subentra la voglia di diventare aria, almeno per rendere il proprio cuore un po’ più leggero.

WEARY WOMAN
WEARY WOMAN

O come Ordine

L’ho sempre prediletto. Mi rincuora, mi rassicura. Dà soddisfazione vedere ogni cosa al proprio posto, scrivere dentro ai margini. La filosofia insegna che gli uomini hanno inseguito a lungo questo concetto, così come quello di perfezione. Probabilmente perché siamo tutti spinti a cercare ciò che ci manca. Siamo imperfetti, anche se proviamo a mascherarlo.

È raffinata l’arte di rendere le proprie imperfezioni una ricchezza. Le città sono in grado di farlo, con i loro marciapiedi sconnessi, i lampioni storti, gli scuri mattoni irregolari a contrasto con lo spudorato azzurro del cielo, così liscio così lontano, affascinano tanti animi. L’arte stessa è imperfezione: pennellate ora rozze, ora forti, ora rabbiose, che nulla rappresentano se non qualcosa di incorretto, incompleto. Rappresentazioni della realtà, dei sogni, dalla paura così differenti dalla vera realtà, dai veri sogni, dalla vera paura. Anche l’uomo, come ogni altra forma d’arte, a volte ha la fortuna di godere di questa abilità: lo penso mentre osservo il cartellone pubblicitario di non so quale marca di cosmetici, dal quale una modella indiana, truccata con i colori più vivi – rosso, verde, giallo – mi rivolge uno sguardo di sfida, con la bocca socchiusa che lascia intravedere i denti bianchi e ricercatamente storti.

Le città, l’arte e alcuni individui contrastano con l’ordine a cui tanto anelo, eppure provo ammirazione nei loro confronti. Sono costretta a ricercare l’inarrivabile perfezione perché la vergogna che provo nei confronti degli errori della mia esteriorità mi impedisce di mostrarli con fierezza. Con ironia, mi rendo conto che sono limitata da me stessa e che questa è un’aporia, per definizione senza via d’uscita.

P come Paura

Un mese fa ho detto a Leonardo che non lo amo più. Era una menzogna allora come lo è adesso. Quello che è vero, invece, è che non posso, poiché non riesco, prestare attenzione a me stessa, al cibo e allo stesso tempo dedicarmi a una relazione. Non esagero quando dico che tutto ciò che concerne il mangiare occupa quasi ogni mio pensiero. Indesiderato, il cibo fa capolino in ogni situazione. Considerando anche che ho perso il mio interesse verso circa qualsiasi cosa, ho capito

che Leonardo non si merita una ragazza presente solo a metà. La paura, se così posso chiamarla, riguarda quello che è successo qualche giorno dopo la nostra rottura.

Ero in casa da sola, in pieno pomeriggio, immersa in uno studio disperato. Ai piedi le mie ciabatte rosa, addosso pantaloni neri e felpa rossa. Capelli chiari raccolti in una coda disordinata. Tutto era conforme all’ordinario, eppure non riuscivo a concentrarmi. Non riuscivo a studiare, ero distratta e affamata. Avevo già assunto 500 calorie tra colazione e pranzo, non era molto considerando che l’unico pasto che mi mancava era la cena (generalmente tento di evitare merende, spuntini o snack, al massimo posso concedermi un thè o una tisana).

Ho camminato dalla mia camera fino alla cucina, strisciando le ciabatte sul liscio pavimento e osservando i raggi del sole filtrare dalle finestre. Davanti alla dispensa, ho sentito crescere una voglia irrefrenabile di qualcosa di solido. Una voglia che cerco di reprimere, ma alla quale quel giorno, spinta da stanchezza e stress, ho concesso una vittoria.

Ho tagliato lentamente due fette di pane dal filoncino nel sacchetto giallo che si trovava sul tavolo, sono stata attenta al loro spessore, che è risultato essere simile. Ho preso un piatto piano dalla credenza in vetro, che mostrava anche agli sguardi più discreti ogni stoviglia. Qualche mese prima non avrei preparato un panino con così tanta cura, non avrei certo usato un piatto, lo avrei forse avvolto in un tovagliolo di carta, o più probabilmente lo avrei mangiato sul lavello per non dover spazzare le briciole dal pavimento. Ma questa merenda era speciale, occasionale, e meritava un piatto.

Ho aperto il frigo tentando di ignorare l’odore di tutti quei cibi diversi e ho afferrato la confezione di prosciutto crudo, mi sono seduta poi sulla sedia e ho tolto il grasso a ogni fetta di affettato, con attenzione. Pochi minuti dopo ero seduta davanti a un normale panino, l’ho guardato un po’ prima di sollevarlo e portarlo alla bocca. Profumava di pane fresco. Vedevo un sacco di cifre che non mi piacevano. La mollica era soffice al tatto e quando l’ho morso – un morso grande, diverso dai soliti piccoli volti a prendere tempo – il sapore ha riempito tutto. In fondo, però, era solo un panino.

Il primo e il secondo morso non mi hanno creato alcuna difficoltà, il terzo aveva meno gusto dei precedenti e al quarto mi sentivo ufficialmente in colpa. Ancora masticando questo quarto boccone ho appoggiato la mia merenda sul piatto, mi sono alzata per prendere un tovagliolo di carta con il quale pulirmi dalle briciole e prima ancora di aver formulato l’intenzione, senza averlo premeditato, ho sputato quello che avevo in bocca nel fazzolettino che avevo appena raggiunto con la mano.

Ero un po’ confusa, ma senza pensare ho rivolto una sguardo al panino che giaceva mangiato solo per metà sul piatto e l’ho afferrato nuovamente. L’ho morso ancora, ho masticato e ho sputato nel tovagliolo. Poi l’ho rifatto. Era un processo strano, non troppo diverso dal mangiare davvero: sentivo il sapore del cibo e invece che spingerlo in giù, bastava spingerlo in fuori. Era liberatorio; la sola idea del panino e il masticare mi avevano saziata. Mi sentivo percorsa da un’incontrollabile frenesia. Ho buttato il tovagliolo che avevo appena utilizzato nel cestino e ne ho preso un altro, così come ho preso una barretta ai cereali e cioccolato. Mi pareva che il ricordo del loro sapore risalisse a una vita fa. Mi sono seduta, ho masticato e sputato, masticato e sputato.

Poi mi sono fermata, ho guardato le mie mani: una reggeva l’ultimo morso dello snack avvolto dalla sua plastica sgargiante, l’altra teneva un tovagliolo di carta ormai un po’ bagnato e pieno di una poltiglia gialla e marrone.

“Cosa cazzo stai facendo E.?” era l’unica cosa che potevo chiedermi. Con un reale senso di nausea ho buttato nel cestino il secondo fazzoletto e ciò che rimaneva della barretta, un po’ scossa sono tornata in camera e mi sono seduta di nuovo alla scrivania, leggendo parole da libri e quaderni senza davvero vederle.

Quella volta ho avuto paura. Paura perché masticare il cibo per poi sputarlo e buttarlo sembra qualcosa che farebbe qualcuno di malato, qualcuno con un problema.

Contare precisamente ogni caloria, quelle assunte e quelle consumate, evitare certi cibi, non rifiutare nessuna attività fisica, è diverso da essere malati. Non fa niente se provo a dormire senza

coperte o a fare la doccia senza acqua calda perché so che il freddo fa lavorare di più le cellule portandole a servirsi di più energia: non è questo che fa di me una malata. I capelli che continuano a cadere sono dovuti alla stagione; così come la mancanza del ciclo, che non ho da qualche mese, è causata dalla tensione scolastica. Sapere quante calorie brucio dormendo o digitando al computer non mi rende una malata, perché io non sono malata. Io voglio solo avere il controllo del mio corpo. Ho solo un po’ paura di perderlo per quanto riguarda tutto il resto.

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Q come Quasi

Quasi perfetto, quasi arrivata, quasi tutto giusto. Il “quasi” è una penisola di incompletezza dentro la quale mi sento in parte rinchiusa, in parte a casa. Nel mio alfabeto, come “calorie” e “controllo” sono sinonimi, anche “insoddisfazione” alla lettera I e “quasi” alla Q lo sono.

Questo avverbio è la causa motrice della ragione che mi spinge ad agire. Ho reso questo non raggiungimento una delle parole della mia vita perché è il rapporto che mi lega ai miei obiettivi e allo stesso tempo, è quello che sono e che caratterizza le mie giornate. Mi impegno molto per fare quello che ritengo migliore a seconda delle situazioni, eppure le mie scelte non sono mai ottimali, sono solo un “quasi”: ho lasciato Leonardo, non parlo con i miei genitori dei dubbi che abitano la mia mente, allontano le vecchie amiche sperando di fare il meglio per me e per loro. Tuttavia percepisco che c’è qualcosa di sbagliato in queste decisioni. Io stessa sono un quasi: eterna via di mezzo tra gli estremi, un ambiguo grigio tra il nero e il bianco. Sto cercando il mio posto lontano dall’incertezza.

R come Rumore

Che rumore fa un cuore quando si spezza? E un animo? Conosco il suono che il vetro produce quando si infrange in tanti pezzi, forse un persona si rompe allo stesso modo.

Lentamente io mi sto rompendo in pezzi che non riesco a raggiungere prima che vadano perduti, pezzi che non so se riuscirò a ricostruire. Non credo che le persone che incontro quotidianamente sappiano di trovarsi davanti una ragazza che sta cadendo in ogni momento, perennemente sull’orlo di un baratro che non so dove porta. I miei genitori non si sono accorti della mia caduta libera, Leonardo l’ha percepita, gli altri la ignorano. Solo una persona l’ha colta. Immagino l’abbia evinta dal mio sguardo perso, o forse tutti stiamo cadendo a modo nostro e lei ha solo riconosciuto gli occhi di chi non conosce la propria meta.

Ho conosciuto Beatrice a un corso di nuoto quando ancora non compivo gli anni in doppia cifra. Non mi piaceva nuotare e neanche lei. Eravamo le bambine imbronciate in fondo alla fila, con i nostri costumi dai colori allegri e l’odio verso lo stile a rana. L’amicizia può nascere da uno spunto qualsiasi: è molto più fantasiosa dell’amore, che conosce così tanti limiti. Le ore di nuoto sono diventate ore di schizzi e risate, e pian piano, avevo otto anni e una migliore amica. In prima media, è diventata la mia compagna di banco. In prima liceo, si è confermata come tale. Non è un’amicizia ruggente la nostra, siamo piuttosto riflessive, ma è sempre stato un rapporto vero, alla pari, di fiducia.

Questo è il motivo per cui ultimamente provo a evitare Beatrice un po’ più degli altri, o almeno, mi impegno per nasconderle quello che mi passa per la testa più di quanto non mi impegni per celarlo agli altri: lei potrebbe capirlo. Quindi sfuggo dal suo sguardo, tentando di comportarmi come ho sempre fatto. Anche se adesso ho meno voglia di uscire con lei e le altre ragazze del gruppo, mi sforzo di accettare qualche invito: mi sembra una buona idea, uscire di casa mi fa bene, a volte mi distrae dal pensare al cibo e poi fa sì che l’attenzione non sia rivolta verso le cause della mia assenza.

Così mi ritrovo seduta al cinema, su una panchina, al tavolo di un bar a sorridere, annuire, parlare il meno necessario mentre provo a ricordare se ho mangiato tre fette biscottate o solo due, a fare lo stesso calcolo per l’ennesima volta nella giornata, a perdermi ascoltando il rumore della mia rottura coprire le risate delle amiche e le loro chiacchiere frivole che tanto invidio.

Faccio del mio meglio, ma Beatrice ha percepito lo stesso la mia caduta verso l’abisso sconosciuto. Mi si è avvicinata durante l’intervallo, come al solito. Avevo osservato un secondo di troppo la ragazza seduta al banco accanto al mio, dall’altra parte della classe, intenta a mangiare con gusto la sua ipercalorica merenda e poi avevo spostato lo sguardo sulla mia amica. Mi aveva rivolto un sorriso gentile, di quelli che mi rincuorano da nove anni a questa parte, poi aveva appoggiato la mano sinistra sul mio braccio, toccando la camicetta bianca che indossavo. “E., e se la felicità venisse prima dell’essere magre?”.

L’avevo guardata negli occhi, mi sentivo imbarazzata, turbata, violata, ma avevo incontrato ancora il suo sguardo dolce. Mi stava offrendo qualcosa che teneva nell’altra mano, nella destra. Era un biscotto. L’ho afferrato, ringraziandola silenziosamente, e l’ho mangiato.

Beatrice sapeva e sa, sente il rumore della mia rottura. Beatrice aspetta che io riesca a ritrovare i miei pezzi da sola. Mi aiuterà. Beatrice non mi lascerà cadere.

Eppure scivolo anche nel suo sguardo rassicurante.

S come Solitudine

Gli inglesi vantano due diversi termini nel loro vocabolario per esprimere questo concetto: loneliness per indicare una solitudine forzata e solitude per indicarne una volontaria. La mia appartiene al primo tipo; affermazione che potrebbe risultare un po’ incoerente considerato il fatto

che ho lasciato il mio ragazzo e tento di allontanare amiche e genitori. Eppure, sono costretta in questo bozzolo solitario contro mia volontà.

Poco importa essere seduta accanto a mille volti, se anche la vicinanza ti fa sentire sola. Poco importano gli abbracci, se i loro significati ti scivolano sul corpo invece che ancorarsi tra i ricordi o le emozioni. Provo a definire questa parola mentre a letto, la notte, non riesco a dormire. Faccio rotolare ogni sillaba sulla lingua e rendo il termine mio. So-li-tu-di-ne.

Per me significa “freddo” perché come nulla riesce a scaldarmi, pare che neanche il gruppo più numeroso riesca a farmi sentire in compagnia. Il freddo che associo alla solitudine è lo stesso che mi scorre nelle ossa ogni giorno. Un freddo che non avevo previsto. È come un gelido fuoco sotto la superficie della pelle, è una delle sensazioni più strane di cui abbia mai fatto esperienza. Per quante maglie e felpe io possa indossare, non riesco a scaldarmi. Sotto alle sciarpe e ai maglioni in lana, percepisco quasi costante un brivido freddo che entra in ogni osso, in ogni poro, in ogni dove del mio corpo; un freddo che mi fa capire che per quanti sorrisi mi vengano rivolti, sono da sola.

house of cards.
house of cards.

T come Tempo

Che scorre e non si ferma, non perdona. Scorre, scorre, scorre.

U come Uomini

Opere d’arte, disastri, amanti, guerrieri, scrittori, calzolai, portatori di morte e di vita. Gli uomini possono essere tutto. L’umanità, i legami tra individui, non conoscono confini. A me paiono concetti inafferrabili. Può darsi che nulla di definibile sancisca queste relazioni.

Ho l’impressione che viviamo tutti, senza saperlo, in un mondo costruito su contraddizioni, superficialità, su sorrisi falsi. Tutti incolpano la società di ogni male, senza rendersi contro della sua astrattezza. Forse credono di rivolgersi ai conduttori televisivi, ai politici o a qualche altra figura di rilievo. Se volessero scoprire il volto di questa società che è mutata in capro espiatorio, non dovrebbero fare altro che cercare uno specchio e guardarci dentro.

Sono costretta ad ammettere – mentre giungo quasi alla fine di questo sofferto alfabeto, distesa sul letto a fissare il lampadario – che anche io, come ogni altro individuo, cado nella trappola delle generalizzazioni. Sono arrabbiata con la società. E sì, quello che ho detto prima è vero: se avessi il coraggio di rivolgere questo sentimento verso qualcosa di concreto non dovrei fare altro che alzarmi, aprire l’anta dell’armadio che ho alla mia destra e fissare i miei occhi castani.

Io sono un essere umano, creo involontariamente la società solo esistendo. Le colpe che non ricadono su di me invece, sono quelle contraddizioni che pesano sulle spalle di ognuno di noi e che qualcuno – davvero qualcuno senza volto – ha imposto, deciso e decretato.

Sono stanca di vedere ovunque donne così magre e socialmente accettate come perfette – quelle nelle pubblicità dei brand più famosi, nei cartelloni attaccati sui muri, quelle che sorridono da ogni schermo – e accendere la televisione (che altro non è se non uno strumento di distrazione per le grandi masse, vorrei aggiungere) e trovare solo programmi di cucina. Come cucinare il cibo sardo, bambini che preparano omelette, competizioni culinarie tra cittadini delle diverse regioni della bella Italia, programmi sulla pasticceria, reality show basati interamente sulla cucina.

Come è previsto che io reagisca? Come è previsto che reagisca la gente? Gli stereotipi esistono per essere incarnati o sfatati, il cibo per essere cucinato ed esposto o mangiato? Io devo mangiare il cibo pubblicizzato che continuo a vedere o devo evitare, per diventare perfetta?

Se qualcosa mi lega ai fautori di queste ambiguità, è solo la rabbia.

V come Vivere

Pochi mesi fa bruciavo dalla voglia di vivere. Non perché credo che la vita abbia un significato, ma perché sono convinta che sia un’occasione che ci viene data, la più grande che potremmo mai ricevere. Nulla la precede, nulla la segue.

Eppure continuo a sprecare giorni su giorni senza concludere niente, non faccio altro che pensare al cibo.

Mi consola l’idea di viaggiare poiché i luoghi che ho visitato mi hanno mostrato che le possibilità non hanno confini. Esistono posti, più vicini di quanto non immaginiamo, nei quali le cose sembrano funzionare in un modo migliore. Posti che ti permettono di respirare meglio, più liberamente. La Terra è ricca, meravigliosa e generosa nell’offrire ai suoi viaggiatori le sue ricchezze e meraviglie. Alle volte riesco a realizzare che i limiti del mondo non sono le pareti del mio appartamento o della mia classe. Non sono neanche le campagne che circondano la mia città. Penso a luoghi lontani, che talvolta paiono esistere solo nella mia mente – quando riesco a sognare e ad andare oltre alle 200 calorie di 56 grammi di pasta – ma quello che conta è che ci siano. Il mio non è desiderio di fuga. Una volta era una ruggente voglia di scoprire che ora credo si sia addormentata, ma sento che può svegliarsi e tornare a urlare ancora.

Z come Zefiro

Un vento di novità, di speranze. Un vento però deciso, quasi impetuoso. “Qual è il tuo futuro, E.? Quali sono realmente i dubbi che ti assillano?” chiedo a me stessa fissandomi le mani, in particolare

l’anello sottile che porto all’anulare. Mi era sempre stato leggermente stretto, eppure ora è un po’ largo. Mi sono dimagrite le dita.

Mi sono persa e non trovo la strada per tornare indietro. Ho rovinato così tante cose in pochi mesi. La mia vita era un castello costruito con le carte da gioco da qualcun altro, di quelli che sorgono appoggiando una carta all’altra. È stato bello viverci dentro, con le sue mattonelle fatte di picche e di fiori, con i suoi triangoli tutti uguali, perfetti.

Poi mi sono alzata bruscamente, ho distrutto il castello. Se non l’avessi fatto io, immagino l’avrebbe fatto il vento.

Forse non devo cercare una via che mi riporti indietro, forse devo cercare quella che mi faccia andare avanti.

Forse devo resistere al vento e iniziare a costruire il mio castello, con i mattoni.

***

Elettra Solignani è nata a Carpi (Modena nel 2000, ha studiato all'East Bay High School di Tampa (FL, USA), si è diplomata al liceo scientifico A. Messedaglia di Verona - dove risiede - e attualmente frequenta la facoltà di Lettere Moderne presso l'Università Ca' Foscari di Venezia. Nel 2018 ha vinto il Premio Campiello Giovani; nello stesso anno ha frequentato il campus estivo organizzato dalla Scuola Normale di Pisa, dalla Scuola Sant'Anna e dallo IUSS di Pavia, vincendo il premio Orsenigo. Nel 2019 ha ricoperto il ruolo di giurata presso le Olimpiadi di Italiano (in collaborazione con l'Accademia della Crusca) e presso il Concorso Nazionale Monti Dauni. Dal 2019 è membro attivo della redazione del quotidiano La Cronaca di Verona, per il quale scrive settimanalmente articoli.

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