Crisi Lgt, viaggio a Milano con gli operai in difesa del lavoro

Ventidue lavoratori padovani del settore autotrasporti partono per Milano per contestare il trasferimento imposto dalla Lgt Italia: siamo andati con loro, ecco le loro storie 

Edoardo Fioretto
Mattero Cesaretto dialoga con il responsabile Lgt di Pero
Mattero Cesaretto dialoga con il responsabile Lgt di Pero

La rivoluzione non è una colazione di gala. Inizia con un caffè in un autogrill alle porte di Milano la battaglia di ventidue operai padovani del settore autotrasporti. Sono andati in missione per riconquistare i loro diritti di lavoratori e la loro dignità di esseri umani.

Ieri mattina hanno sfidato Lgt Italia, l’azienda di logistica che li ha trasferiti in Lombardia da un giorno all’altro, in barba a ogni preavviso previsto dalla legge. Determinati quanto esasperati, hanno trasformato il loro viaggio nella parabola dello scontro tra Davide e Golia. Da un lato un gruppo di uomini da tutti gli angoli del mondo che sentono calpestati i loro diritti. Dall’altro un’azienda leader del settore con fatturato milionario.

La trasferta dei lavoratori Lgt
La trasferta dei lavoratori Lgt

Una missione dall’esito tutt’altro che scontato. Si imbarcano su una corriera turistica dal parcheggio di via Longhin alle 4 del mattino. L’alba è ancora lontana e mentre la comitiva si avvia verso l’autostrada la luna piena illumina le strade deserte della zona industriale.

Dopo settimane di trattative tra la direzione di Lgt e i sindacati, il giorno 8 gennaio è arrivata a tutti i dipendenti una comunicazione aziendale di trasferimento immediato alla sede di Pero, a Milano. Chiunque rifiuti il trasferimento sarebbe stato licenziato per giusta causa, cosa che comporta la perdita dei diritti da disoccupazione, prima fra tutti la Naspi.

Coordinati dalla Filt Cgil, i lavoratori hanno deciso di prendere il bue per le corna partendo alla volta di Milano. La corriera scivola sull’A4 macinando chilometri, mentre dai finestrini le campagne del Padovano lasciano gradualmente spazio ai vigneti di Soave e alle acciaierie veronesi. Nella corriera i più dormono, altri ammazzano il tempo giocando a dama.

A metà strada scatta una discussione sulla pronuncia del Comune di Pero (che sia Pèro o Péro) tra albanesi, marocchini e afghani: dopo un acceso dibattito si accordano diplomaticamente per la seconda forma e tornano a riposare. Nel frattempo Matteo Cesaretto, delegato di Filt Cgil e coordinatore della missione, gioca anche lui una partita a dama, ma nella sua testa: valuta tutte le possibilità cui stanno andando incontro, le azioni e le eventuali controazioni.

Se fossero riusciti nella loro impresa di scoprire le carte della Lgt proverebbero che la ditta non è pronta al trasferimento, riuscendo così a dimostrare che è solo un pretesto per licenziare i ventidue lavoratori padovani. Ma se così non fosse, e Lgt avesse furgoni e pacchi pronti per le consegne, i piani salterebbero, annunciando una disfatta per i dipendenti che a quel punto sarebbero costretti ad accettare il cambio di sede.

Ma è un rischio che a questo punto sono tutti pronti a correre. Lentamente il panorama bresciano lascia spazio alle skyline di Milano, e alle 7.30 superano la barriera autostradale. Qualche svincolo e alle 8 in punto arrivano a destinazione in via Vespucci, a Péro. Il momento della verità.

Nel parcheggio di Lgt i lavoratori notano subito alcuni dei furgoni di Padova: qualcuno deve averli trasferiti. La tensione sale. I ventidue entrano insieme e si presentano al responsabile di sede che li accoglie con sguardo tra lo spaventato e sbigottito. Non li aspettava nessuno. Immediata la richiesta dei lavoratori: «Siamo qui per lavorare, dove sono i furgoni per le consegne?».

Risponde il direttore di sede, Diae Chanchane, che non li aspettava nessuno, che i furgoni non ci sono per tutti, né sono in programma consegne da fare. E il magazzino è semivuoto. «Lgt ha calato le carte, e il loro era tutto un bluff», dice soddisfatto Cesaretto. «Era chiaro fin dal principio che questo era un trasferimento pretestuoso per lasciare a casa 22 lavoratori. Ora ne abbiamo le prove».

Il delegato Cgil a quel punto scrive un’autodichiarazione in cui evidenzia che i lavoratori si sono presentati come da richiesta, ma nessuno li ha fatti lavorare. Ai dipendenti, nonostante il trasferimento alla sede milanese, non viene concesso nemmeno di usare il bagno. Ma ormai non importa, l’ottimismo è alle stelle. Tappa successiva a Brescia, alla sede amministrativa di Lgt dove trovano tutto chiuso. L’azienda non replica, e la corriera torna, infine, trionfalmente a casa.

Il sindacalista: «Lasciato a casa senza comunicazioni»

«Comunicazione? Quale comunicazione, mi hanno lasciato a casa senza dire nulla». Hasan scuote la testa mentre racconta la sua vicenda, una storia che si intreccia con quella degli altri ventidue lavoratori padovani di Lgt Italia. Storie di lunghe attese, di contratti rinnovati a fatica e di diritti conquistati un passo alla volta.

È una battaglia fatta di tavoli di crisi, trattative estenuanti e speranze spesso disilluse. Una battaglia che i lavoratori della logistica portano avanti da mesi con il sostegno dei sindacati.

Hasan, originario del Pakistan, vive in Italia dal 2015. La sua storia è simile a quella di tanti colleghi. Per anni hanno lavorato con contratti che ignoravano i diritti sulle trasferte e stipendi ridotti.

«Mi sono interessato alla questione – racconta Hasan – e sono stato il primo a coinvolgere i sindacati, perché qualcuno si occupasse dei nostri contratti».

Il suo gesto ha innescato una reazione a catena: finalmente i lavoratori hanno ottenuto il riconoscimento di oltre 200 euro in più al mese per le trasferte. Una differenza sostanziale, soprattutto per chi, come molti di loro, ha una famiglia da mantenere.

Hasan parla con calma, ma la sua voce tradisce emozione. «Io sono nato in Pakistan, in una famiglia benestante», spiega. «E di questo sono grato, perché mi ha permesso di frequentare scuole di alto livello.

Ho studiato informatica in una buona scuola, dove ho imparato l’inglese. Nel mio Paese non è una cosa da poco. Nelle scuole pubbliche non lo insegnano, e senza l’inglese non puoi cogliere molte opportunità, tanto meno lasciare il Paese».

L’inglese, infatti, è stato la chiave per una svolta: dopo nove anni di lavoro in Pakistan, Hasan è riuscito a trasferirsi a Londra, dove ha vissuto cinque anni, perfezionando la lingua. Poi, nel 2015, è arrivata una nuova decisione: trasferirsi in Italia. Da allora Hasan vive a Padova, dove per un periodo ha trovato anche l’amore. «Negli ultimi dieci anni ho fatto qualche errore di percorso – ammette – ma sul lavoro sono sempre stato professionale».

Ma da sei mesi Hasan è in aspettativa. È in quel periodo che, racconta, la situazione è precipitata.

«Quando Autodis e Ricauto, a novembre, hanno parlato di dare continuità ai contratti, hanno tenuto conto solo dei lavoratori attivi. Io ero in aspettativa, quindi sono stato tagliato fuori».

Il tono di Hasan si fa più grave. «Quando a dicembre c’è stato lo sciopero e poi la notifica di trasferimento, ci hanno detto che non tutti avrebbero potuto continuare a lavorare a Padova. Oltre a me, hanno lasciato a casa un collega in malattia e uno in ferie». Hasan sorride amaro quando gli chiediamo se sono stati licenziati: «No – risponde – quando hanno deciso chi poteva restare, hanno fatto finta che noi non esistessimo. Non ci hanno nemmeno comunicato nulla. Io aspetto ancora sei mesi di stipendi arretrati: parliamo di almeno 12 mila euro». Parole che lasciano un peso, una ferita aperta. Una storia di invisibilità che Hasan condivide con i suoi colleghi, in attesa che giustizia e dignità tornino a essere priorità anche sul lavoro.

La storia: «In Italia una nuova vita»

Padova, terra di infinite opportunità. Così è stato per molti dei lavoratori di Lgt Italia, che per anni hanno trovato nell’azienda di logistica un lavoro dignitoso. Ma è stata anche un’occasione di rinascita: Eron, origini albanesi e un passato fosco, ha pagato i suoi debiti con la giustizia prima di arrivare in Italia, e quindi stabilirsi a Padova.

«Ho lasciato l’Albania venticinque anni fa», racconta con una sfumatura di malinconia nella voce. Fuma una sigaretta fuori da un autogrill alle porte di Brescia. Lo sguardo di tanto in tanto si perde nei ricordi. «A 17 anni avevo già una macchina da un milione e mezzo di lire, pagata in contanti, sull’unghia», dice con un sorriso amaro. All’epoca, in Albania, la giovane età sarebbe stata un ostacolo per mettersi al volante. Ma per lui, non lo era mai stata.

«A una partita a poker, avevo puntato grosso – ricorda – e con una giocata giusta mi ero preso passaporto e patente da un amico. Da quel momento, usavo quelli». Era una vita vissuta al limite, tra piccola criminalità e decisioni che lo avrebbero segnato. La libertà, però, era solo un’illusione.

«Quando scegli quella vita, non sei mai veramente libero – spiega Eron – Devi sempre guardarti le spalle, temere il prossimo o una resa dei conti. E così ho capito che non sarei mai stato veramente libero».

Il tono si fa più deciso quando parla della svolta. «Ho deciso di pagare il mio prezzo con la giustizia, affrontare le conseguenze dei miei errori, e lasciarmi tutto alle spalle. Dovevo ricominciare da zero, rigare dritto». E così ha fatto. Eron ha lasciato il suo passato in Albania e si è trasferito in Italia. A Padova ha trovato non solo un lavoro, ma anche un’occasione per riscrivere la sua storia. Una storia di redenzione, costruita giorno dopo giorno con fatica e determinazione.

«Con Lgt non era male», riflette Eron, riportando lo sguardo al presente. «Lo stipendio era sufficiente per mantenere una famiglia, anche se capivi che su alcuni aspetti qualcosa non quadrava». Quando i sindacati hanno cominciato a esaminare i contratti dei dipendenti di Lgt, e della controllata Transport, sono emerse criticità: contestati diritti ignorati e paghe inadeguate rispetto alle mansioni svolte.

Una situazione che ha portato a richieste di adeguamenti: «Siamo diventati un problema per Lgt», spiega Eron. «Abbiamo iniziato a pretendere di avere i diritti che ci spettano, e questo ci ha reso scomodi. A quel punto, per loro, la soluzione era semplice: trovare un modo per lasciarci a casa».

La sua storia si intreccia con quella di Nicola, un giovane fattorino che conosce bene il peso della fatica nel settore della logistica. Per ventidue anni ha lavorato in Dhl, finché le condizioni non sono diventate insostenibili. «Prima arrivavo a fare 220 passaggi al giorno tra ritiri e consegne», racconta.

«Era diventato impossibile. Il ritmo di lavoro era opprimente, non c’era respiro». Quando Nicola ha deciso di lasciare Dhl, ha trovato in Lgt un’alternativa apparentemente più sostenibile. «Le paghe erano simili, ma il carico di lavoro era diverso. Meno consegne ma viaggi più lunghi».

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