Dieci parole padovane che non si usano più

Dal basavejo a “Marco Caco”: termini ed espressioni scomparsi nel nostro dialetto. Ecco le nostre scelte: diteci quali sono le parole che secondo voi vanno recuperate

PADOVA. Dieci parole padovane che non si usano più. Perché il nostro linguaggio muta con il tempo e pian piano il dialetto va scomparendo. Ecco perché recuperare le parole scomparse e divertirsi ad allenare la memoria cercando quelle che non ci ricordiamo più. Quali sono? Ecco le nostre dieci scelte. Come sempre, non è una classifica ma solo un elenco realizzato in redazione. Ovviamente ne abbiamo escluse o dimenticate più di una: quali sono le vostre parole padovane da salvare? Utilizzate lo spazio commenti, qui sotto, per farcelo sapere.

Basavejo

eee

E' il pungiglione di vespe e api. In questo senso uò essere usato nella frase: "A so sta becà dal basavejo del graon" (Mi ha punto il pungiglione del calabrone). Ma vale anche in senso figurativo per qualcuno che ha la lingua particolarmente tagliente o acuta.

Ciòrdo

eee

E' un termine dialettale per definire un ladro. L'etimologia è abbastanza semplice: arriva da "cior", che è un verbo derivato da "tor" cioè prendere. Curiosamente anche in romeno, altra lingua neolatina, il verbo "A ciordi" si traduce con "rubare, fregare".

Ropegàra

wew

Il vocabolario veneziano e padovano di Gasparo Patriarchi lo definisce così: "Stromento di legname che tirato da' buoi piana e trita la terra ne' campi lavorati". In pratica è l'erpice: oggi non si usa più il legno ma il ferro e viene trainato da un trattore.

Veturo

rrrr

E' il tino, cioè un "vaso grande di legno nel quale si pigia l'uva per fare il vino". Nel padovano è arrivato da latino "vectare" cioè trasportare, perché i grossi tini venivano usati anche per trasportare l'uva o il mosto.

Lissia

ttt

Dal latino "lixivia", cioè bucato. E' il lavaggio della biancheria fatto con acqua bollente e cenere: il metodo usato fino a qualche anno fa dalle nostre nonne. Può essere usato in senso letterale o figurato nella frase: "A queo ghe vorìa na lissia" (riferito a una persona sporca).

Scùria

rrtt

Un termine che vuol dire "frusta" e che deriva dall'italiano antico "scuriada", cioè sferzata di cuoio. E quando per qualcuno è arrivato il momento di usare le maniere forti si può dire, in senso figurato: "Par lu ghe vorìa la scuria come par i mussi".

Pantezare (o Pantexare)

eee

Ancora da vocabolario dal Patriarchi: "Respirare con forza per frequente battimento di polmone". In pratica è il nostro ansimare o il respirare affannosamente. Viene usato nella frase: "El panteza come un treno", cioè espira molto affannosamente, un po' come le vecchie locomotive dei treni a vapore.

Varsùro

rrwq

E' l'aratro. La parola in padovano deriva da latino "versorium", da "vertere", cioè rivoltare (la terra). Un termine che sarà sicuramente ricordato da chi ha lavorato in agricoltura.

Mignognole

ttrfef

Sono le carezze oppure le moine. In senso figurato si usa anche nella frase: "I ghe ga fato mie mignognole" (Gli hanno fatto mille moine), per dire di una persona accolta con molto riguardo e molta attenzione.

Marco Caco

fefef

Si usa per dire di tempi andati o di una persona molto vecchia. Il modo di dire più comune è "L'è vecio come Marco Caco". Si riferisce a un condottiero di Chioggia, il cui vero nome era Marco Cauco, che si distinse nella guerra contro i Padovani difendendo la torre di Bebe posta ai confini tra Venezia e Padova. Una guerra del 1200 che è arrivata sino a noi attraverso la nostra lingua.

Riproduzione riservata © Il Mattino di Padova