E la fornace sfornava rapporti umani

Documentario sullo stabilimento Carotta, un libro sulla ciminiera di Conegliano
Di Daniela Frisone

PADOVA. La storia delle fornaci è storia nostra. Parla di memoria, di lavoro, di gente comune che ha contribuito allo sviluppo industriale di un'intera regione. Veniamo a conoscenza del vissuto di certe maestranze grazie al documentario “L’ex Fornace Carotta” di Pierluigi Fornasier e Daniela Antonello, presentato nell’ambito di ArtePadova 2013. Quella di via Goito, la fornace sorta nel 1876, che prende il nome dal suo fondatore, il rodigino Giulio Carotta, è lo specchio di tante altre sparse nel territorio. Siamo sul finire dell’Ottocento e, a parte quella situata nella zona occidentale di Padova, col nome di Carotta sorgono altre fornaci, a Conselve, a Lusia e a Borsea (entrambe in provincia di Rovigo). Sarà Ermenegildo Carotta, all’alba del secolo scorso, a trasformare la fornace padovana da fabbrica di vasi in terracotta a stabilimento per la costruzione di materiale laterizio. La testimonianza del nipote del commendator Carotta, Luciano Lupati, ripresa nel documentario, è traccia di vita oltre che di cosiddetta archeologia industriale. Un’azienda a conduzione familiare, un circuito in cui entravano a far parte per lo più conoscenti, come in un piccolo villaggio produttivo. Il ruolo dei Carotta non era solo padronale: pensavano ai figli dei lavoratori come ai propri figli, li sostenevano con somme di denaro per facilitarli negli studi; oppure all’acquisto delle case per i propri manovali. Una sorta di mecenatismo univa più famiglie a una fabbrica sola. Pensate che nel periodo di maggiore sviluppo, dopo la fine del secondo conflitto mondiale, nel clou della ricostruzione urbana, la fornace Carotta arrivò a dare lavoro a 150 persone. In quel momento storico in cui l’attività artigianale delle fornaci venete aumentava di molto il suo rendimento. Oltre all’uso generalizzato di corrente elettrica, al miglioramento dei mezzi di trasporto, entravano in gioco i forni a funzionamento continuo. Quelli chiamati Hoffmann, il cui prototipo venne presentato all'esposizione di Parigi nel 1867. Un dato che la dice lunga su quanto l’Italia fosse indietro rispetto alle innovazioni già presenti nel circuito europeo. È Beatrice Autizi nel suo libro “Archeologia industriale a Padova” (Comune di Padova, 2004) a descriverne il funzionamento: “Una specie di galleria a volta, originariamente di forma circolare, poi ellittica, divisa in un certo numero di scomparti o camere, nelle quali vengono posti i laterizi per la cottura”. Ma a spiegare il senso della manovalanza di un tempo è il racconto di Saverio Pressato, uno degli anziani lavoratori della fornace Carotta: “Il lavoro era stagionale, da marzo a settembre. Agli inizi c’era l'uomo che faceva i mattoni a mano, portava l’impasto nella cassettina, la batteva, poi tagliava e veniva fuori il mattone che si doveva essiccare. Io prima portavo i mattoni con i buoi, poi con i cavalli, poi si usarono i camion inglesi e la Fiat 290”. La fornace Carotta venne dismessa nel 1976. Oggi il nucleo centrale con quell’”l’obelisco” di mattoni è ancora salvo, e l'edificio del forno Hoffmann diventa cuore pulsante del quartiere. Un altro monumento alla memoria delle antiche manovalanze è la fornace di Conegliano, nel trevigiano. Ce ne parla Lucia Tomasi, discendente della famiglia che già dai primi del ’900 ha dato il nome alla fabbrica. Nonostante lo stato di degrado, la fornace Tomasi è un edificio-simbolo all’ingresso sud della cittadina: costruito con il sistema “fachwerk” di origine tedesca, cioè mattoni color rosso vivo più il nero della struttura portante in legno. Accanto uno dei sei laghetti nell’area di pertinenza da cui si estraeva l’argilla, un luogo ben noto ai coneglianesi per pescare e passeggiare. L’industria e la natura coesistevano. Una realtà ben spiegata nel libro di Lucia Tomasi, “La ciminiera di Conegliano” (Cleup, 2013): le radici dell'imprenditoria del Nord-Est, la sua cultura, la voglia di crescita di un territorio.

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