«Faccio bella Padova per riconoscenza»

Immobiliarista iraniano, 68 anni: ecco come restaura i migliori palazzi del centro
TAPPETI PERSIANI Samtov Shamouni, 68 anni iraniano, ha deciso di chiudere per sempre il suo negozio in via Roma Al suo posto arriverà «Non solo sport» di Sergio Giordani
TAPPETI PERSIANI Samtov Shamouni, 68 anni iraniano, ha deciso di chiudere per sempre il suo negozio in via Roma Al suo posto arriverà «Non solo sport» di Sergio Giordani
Cognome dal suono dolce e suggestivo, che richiama ai protagonisti delle fiabe d'Oriente, tra cui quelle persiane. Anche Samtov Shamouni è nato 68 anni fa in un territorio dell'antica Persia: a Rezaieh, città circondata dai monti e bagnata da un lago nell'Azerbaijan iraniano, tra Turchia e Russia. Nel soppalco del negozio di Via Roma a Padova, tappezzato dei suoi magnifici tappeti, egli ripercorre con fare pacato e gentile la trama d'una esistenza avvincente.  
Signor Shamouni, come ricorda la sua infanzia in Iran?  
«Mio padre commerciava in tessuti e tappeti e noi sei figli uno alla volta siamo emigrati tutti, perlopiù negli Usa. A 24 anni, con un diploma di geometra in tasca, sono partito per Milano, dove da quasi un secolo risiedevano degli zii. Avendo perduto papà a 13 anni, dovevo pensare a costruirmi un futuro».  
Anche gli ziii si occupavano di tappeti?  
«Per tradizione di famiglia. Gli anni '60-70 sono stati in Italia un periodo d'oro per i bei tappeti: opere d'arte, che gente d'un certo livello acquistava per il gusto del bello. Come ogni opera d'arte è unica, così lo è il tappeto di pregio: testimone eccellente del tempo e del luogo di provenienza; del popolo, di cui tramanda colori, simbologie, tradizioni. Oggi è mutato il significato stesso di tappeto: da opera d'arte a complemento d'arredo. Si è "occidentalizzato" al punto che gli acquirenti, invece che ricercarne storia e personalità, chiedono dimensioni e colori adatti alle loro case. E' cambiato anche il modo di spendere degli italiani, che investono più su viaggi e tecnologie che sulla casa. Per questo entro Febbraio chiuderò per sempre l'attività (che verrà sostituita da "Non Solo Sport") e per eliminare il magazzino ho messa sul mercato centinaia di tappeti a prezzi di realizzo. Ma non potrò mai cancellare l'emozione, che ancora oggi provo quando lo sguardo mi cade su un pezzo di particolare bellezza».  
Quando ha aperto il negozio di Padova?  
«Nel '66. Per me Padova era la capitale del Veneto e il caso mi ha aiutato: di passaggio in città, ho notato il cartello "affittasi" nella zona pregiata di Canton del Gallo. Ho poi aperto altri negozi a Bologna, Verona, Cortina».  
Quand'è iniziata la sua seconda carriera di restauratore di immobili di pregio?  
Avevo avviato un'attività immobiliare a metà degli anni '80, ma il mio primo cantiere in città risale al 1990, col restauro d'un palazzo in via Vescovado, angolo via Sperone Speroni. Anche qui con l'ambizione di fare un lavoro creativo, di lasciare alla città una testimonianza concreta di bellezza».  
Altri restauri?  
«Del '95 è la ristrutturazione di Palazzo Borromeo, ex Montesi: 30 unità abitative per 6 mila mq di superficie e due piani di garage sotterranei. La ricerca del profitto non ha mai trasformato il mio lavoro in un'operazione puramente speculativa: acquisto un palazzo con la sua storia, spesso ridotto ad un rudere, e lo restituisco all'antico splendore. Lo considero un privilegio, amo il pensiero che i miei nipoti potranno dire: questo l'ha fatto il nonno. Ho restaurato palazzo Polcastro in via Santa Sofia; in piazza Eremitani sto risistemando quello che sarà palazzo Mantegna, in onore del Maestro, che di fronte ha affrescato la Cappella Ovetari; palazzo Sinigaglia in piazza della Frutta; palazzo de Lazara in via Roma; palazzo Lonigo in via Dante; quasi terminata è la ristrutturazione di palazzo Molin in via Cassan, dove ho realizzato 12 unità abitative, alcune già vendute, e due piani di garage».  
Ci descrive un cantiere-tipo?  
«Premetto che ognuno di essi dà lavoro in media a 200 persone - dall'operaio ai vari specialisti -, il che significa mantenere 200 famiglie. S' incomincia con lo scavo archeologico: a palazzo Borromeo, per la presenza di resti medioevali, ho costruito solo due dei quattro piani sotterranei autorizzati. Seguo di persona il cantiere otto ore al giorno, non delego ad altri e questo mi gratifica; anche se ricerco con l'architetto e il cliente, cui alla fine consegno l'abitazione chiavi in mano, soluzioni ottimali quanto a spazi, colori, materiali, isolamenti acustici, condizionamenti e riscaldamenti. Con palazzo Molin, che era fatiscente, stiamo restituendo alla città una delle sue più belle dimore. Mentre il terreno antistante di 1500 metri quadri, prima abbandonato, si sta trasformando nel suo splendido giardino. Amo anche il verde e ne ho scelto in prima persona gli alberi, ad uno ad uno».  
Conviene l'investimento sul mattone?  
«Lo ritengo l'unico che non tradisce mai e che nel tempo mantiene il suo valore. Anche se ciò che compro oggi sembra caro, domani diventerà a buon mercato. Certo, bisogna cercare di sveltire i costi d'una burocrazia paralizzante, che ricadono anche su chi acquista».  
Oggi si sente italiano?  
«Pienamente. Amo il Paese che mi ha accolto e permesso di realizzare un'esistenza appagante. Al mio arrivo in Italia ho subito cercato di integrarmi, di assorbirne la cultura, ho sposato un'italiana. Da qualunque luogo proveniamo, coltivo l'idea che dobbiamo ricercare ciò che ci lega e non ciò che ci divide. Nel privato ciascuno è poi libero di mantenere, con discrezione, le sue tradizioni. Tuttavia, non posso non rimarcare che, mentre decenni fa il mio essere straniero destava curiosità e interesse, oggi la parola extracomunitario ha assunto un significato dispregiativo».  
Ma le etichette generiche rispondono a verità o non sarebbe meglio rispettare ogni individuo per quello che è?  
«In ogni popolo c'è del buono e del cattivo. Nei miei cantieri l'80% degli operai proviene da Paesi dell'Est e nordafricani, e tutti assieme contribuiamo ad accrescere il benessere dell'Italia. Sì, mi sento italiano: ma conta quello che ci sentiamo noi o quello che gli altri ci fanno sentire? Quanto a Padova, farla più bella mi sembra un ripianare il debito contratto verso chi mi ha ospitato con affetto. Mi ha addolorato l'alluvione del suo territorio, sto pensando ora a come muovermi, tramite la vendita dei miei tappeti, a favore di chi ha perduto tutto».  
Ha figli?  
«Due femmine e un maschio. La prima, laureata in Filosofia, risiede a Parigi, dove ha trovato le migliori opportunità di lavoro. La seconda è diplomata alle superiori e il terzo è architetto: lavorano con me e sto iniziando a cedere loro il testimone. Ho anche tre nipoti: Luca ed Eva, i "parigini" e Sofia, la "padovana"; bambini che mi rendono un nonno felice e mi danno il senso della continuità della famiglia».  

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