Giacomo Levi Civita, l’avvocato ebreo che consegnò Giotto all’umanità tutta
L’Albert & Victoria Museum voleva staccare gli affreschi degli Scrovegni a Padova per portarli a Londra. Fu lui a dimostrare che erano di proprietà dei padovani. Ecco l’ingegnoso stratagemma adottato per conto della “Fabbriceria degli Eremitani”
PADOVA. Alla sua morte, il 30 marzo 1922, esattamente 100 anni fa, l’aula del Senato lo ricordò con queste parole: «La sua cultura non comune nelle discipline giuridiche, il suo spirito particolarmente equilibrato e pratico, la dirittura del carattere, la squisita signorilità dei modi gli procurarono la stima e l’ammirazione dei colleghi e dei magistrati e una posizione davvero eminente».
Senatore, sindaco di Padova e ancor prima garibaldino: nel 1878 però Giacomo Levi Civita era un giovane avvocato trentenne, di famiglia ebraica, appena eletto in consiglio comunale. Ebbe l’intuizione – e la perfezionò con ore e ore di studio – che consentì alla Cappella degli Scrovegni di diventare patrimonio pubblico. In un certo senso, fu Levi Civita a iniziare quel percorso che un secolo dopo porterà al riconoscimento dell’Unesco.
Precediamo con ordine: nel 1826 viene abbattuto il Palazzo degli Scrovegni, splendido edificio adiacente alla Cappella. Pochi anni prima era persino crollato il pronao della Cappella. La famiglia Gradenigo-Foscari (poi Baglioni), eredi degli Scrovegni, era in grande difficoltà.
In città circolava voce che l’Albert & Victoria Museum di Londra avesse manifestato l’interesse all’acquisto degli affreschi di Giotto, che sarebbero stati staccati e portati nella capitale inglese. Il podestà Francesco De Lazara cercò di reagire: il Comune non aveva i fondi per acquistare la Cappella e così scrisse una lettera all’«augusto imperatore» Francesco Giuseppe (Padova era austriaca all’epoca): il “ratto” di Giotto «sarebbe di massima sventura per la città».
Era necessario dimostrare che quella non era una cappella privata, di proprietà di una famiglia. Ma un patrimonio di tutti i padovani e, per estensione, dell’umanità. Ci riuscì Giacomo Levi Civita con una memoria corredata da una mole impressionante di documenti.
E con uno stratagemma: dimostrò, per conto della “Fabbriceria degli Eremitani” che Enrico Scrovegni non realizzò la Cappella per un uso privato. Anzi: la dotò di un campanile per richiamare il popolo alla messa, e ogni anno, nel giorno dell’Annunciazione il 25 marzo, vi si celebrava una processione e una messa, con in testa il vescovo e il podestà.
Insomma, quel capolavoro che rappresenta la rivoluzione dell’arte, il passaggio dal Medioevo a una nuova era, quel Giotto che – come disse Cennino Cennini – «rimutò l’arte del dipingere di greco in latino», non poteva essere venduto né abbattuto. Semplicemente perché non era proprietà di una persona o di una famiglia.
Ma è di tutti noi.
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