Giovannini: «L’insostenibilità economica di questo sistema è sotto gli occhi di tutti»

A colloquio con il fondatore dell’Alleanza italiana per lo sviluppo sostenibile: il costo dei cambiamenti climatici è manifesto

Enrico Giovannini, portavoce di ASviS (Alleanza italiana per lo sviluppo sostenibile): Agenda 2030 coinvolge 193 Paesi, concentrandoli su 17 obiettivi di fondo e 169 traguardi specifici. Qual è il denominatore comune?

“La giustizia tra generazioni. Che significa, in concreto, l’idea di uno sviluppo tale da consentire alle generazioni attuali di soddisfare i propri bisogni senza pregiudicare quelli delle generazioni future. Il tutto poggia su 4 pilastri: l’economia, il sociale, l’ambiente, le istituzioni. Tutti egualmente importanti. È una visione molto più ampia di sviluppo sostenibile rispetto a quello inteso come questione meramente ambientale”.

Ormai quasi mezzo secolo fa veniva pubblicato il rapporto su “I limiti della crescita”, che già segnalava i rischi di non rispettare i vincoli ambientali e dell’ecosistema. Siamo a una svolta radicale?

“Agenda 2030 considera i temi ambientali come una delle componenti di uno sviluppo alternativo. Ce ne sono diversi altri, altrettanto importanti: la povertà, la salute, l’alimentazione, l’acqua, l’energia, il lavoro… In altri termini, la vera sostenibilità non si può ridurre solo alle buone pratiche ambientali, ma richiede una visione integrata delle diverse dimensioni dello sviluppo, con un forte coinvolgimento di tutte le componenti della società”.

Il primo obiettivo di Agenda 2030 è eliminare la povertà; ma è un traguardo con cui da decenni i Paesi sviluppati mancano l’appuntamento. Cosa può indurci a sperare che stavolta sia diverso?

“L’evidenza della non sostenibilità dell’attuale modello di sviluppo è ormai sotto gli occhi di tutti. I costi che comportano i cambiamenti climatici, con i relativi disastri ambientali, sono del tutto manifesti, anche in termini di migrazioni; e non si scaricano soltanto sulle singole persone colpite, ma anche sulle imprese private e sugli Stati. Siamo arrivati al punto che alcune società assicurative non propongono più soluzioni per tutelarsi contro alcuni rischi ambientali”.

Insomma, non è tanto una coscienza ambientale quanto un fattore economico a suggerirci che dobbiamo girare pagina?

“Anche: c’è un’insostenibilità economica e sociale che è sotto gli occhi di tutti, e che non sparirà solo grazie alla crescita del Pil. Per i Paesi sviluppati, l’Ocse stima per i prossimi decenni una crescita del Pil dell’1,75 per cento all’anno. Le pare che il sistema capitalistico possa considerare sostenibile un tasso di aumento di questo tenore, o che questo possa ridurre disuguaglianze e povertà?”.

Però c’è di mezzo anche la politica, anzi soprattutto la politica, perché è lì che si prendono le decisioni. Ci sente, o resta sorda?

“Diciamo che l’insostenibilità dell’attuale modello di sviluppo può contare ormai su un pieno riconoscimento da parte della scienza, e che indubbiamente i vari leader politici del mondo stanno guardando al problema con una consapevolezza ancora inadeguata, ma sicuramente superiore rispetto al passato”.

E il resto della platea?

“La bellezza di Agenda 2030 sta nel fatto che sta cambiando la sensibilità non solo dei governi ma anche dei privati, dalle imprese alla società civile ai singoli; e i segnali cominciano a intravedersi. D’altra parte, guardiamoci attorno: il numero di conflitti tra Paesi è al suo massimo storico, e ciò che deriva da questa instabilità è un rischio pesante per tutti”.

Quindi cambiare corso non solo è eticamente corretto, ma soprattutto conviene?

“Certamente. Prendiamo le imprese: oggi disponiamo di tecnologie che consentono loro di fare il salto verso un’economia circolare, in cui si guarda alla competizione non più concentrandosi sul costo del lavoro (che rappresenta il 30 per cento dei costi), ma sulle altre voci (materie prime, semilavorati eccetera). Teniamo presente che l’economia del riciclo richiede tra l’altro maggior occupazione; ma questo non ha effetti negativi sulla redditività complessiva. E la stessa finanza sta andando in questa direzione, per tutelare i propri investimenti di medio termine. Insomma, sembrano esserci le premesse per un vero cambio di paradigma”.

In tutto questo l’Italia marcia sempre in coda: lei stesso ha criticato la legge di bilancio 2019 rispetto allo spirito e agli obiettivi di Agenda 2030.

“Sembra in effetti che il nostro Paese, nonostante le molte buone pratiche in atto, stenti a riconoscere in questo nuovo paradigma un’esigenza l’unica direzione possibile per il proprio futuro. Eppure, esso sarebbe coerente con la storia italiana dal Rinascimento in poi, e con i comportamenti di molte imprese che hanno storicamente una precisa attenzione verso la società e l’ambiente. La legge di bilancio 2019, in particolare, manca di una visione sistemica”.

Possiamo proporre un esempio specifico?

“Penso alla transizione in atto nella mobilità. Il futuro è delle auto elettriche o di quelle a gas? Se non facciamo questa scelta, come potremo mettere le nostre imprese di settore in grado di orientarsi tra investire nelle colonnine per le ricariche o i distributori di gas? Prendiamo il caso Mercedes: l’azienda ha deciso di investire diversi miliardi nelle batterie al potassio per le auto elettriche anziché su quelle al litio, per contrastare le scelte di una Cina che è avanti di decine di anni. Stiamo parlando di decisioni fondamentali per il futuro, anche economico, del nostro Paese e dell’intera Europa”.

Il 2030 non è in fondo lontano: su Agenda 2030 lei è ottimista o pessimista?

“Preoccupato. Ma spero che si riesca a fare il salto”.


 

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