«I ragazzi oggi pensano solo a ubriacarsi e i genitori li coprono»

Il mondo della notte raccontato da Roberto Fortin, 57 anni il più anziano addetto alla sicurezza di Padova e provincia
Angelo Rosa, Mela Verde, Capannina, Medoacus, Deniro, Par hasard, Station, Ocean, Kabarà, Spy cafè, Prince, Maskò. Tutti nomi che evocano ricordi di serate (o domeniche pomeriggio) passate tra divertimento, musica e amici. In tutti questi posti c’era lui: Roberto Fortin, 57 anni compiuti lo scorso 12 agosto, forse il “buttafuori” più conosciuto di Padova, quello che da più anni è sulla piazza del divertimento notturno. Anche se “buttafuori” non è poi un appellativo gradito: «Ci considerano dei violenti, pronti a menare le mani, e altre stupidaggini del genere. Invece noi partiamo da casa alla sera sperando di tornarci al mattino dopo senza che sia successo nulla».


Fortin, oggi il suo mestiere è diventato una professione regolamentata, con l’albo del “personale addetto alla sicurezza”, corsi di formazione e persino una preparazione psicologico-sociale. Com’è cambiato rispetto a 20 anni fa?


«Quello dell’albo era un traguardo cui tutti aspiravamo per avere delle linee guida e delle regole chiare. Purtroppo però non c’è stato un miglioramento significativo. Restano dei pregiudizi da età della pietra: chi fa questo lavoro resta l’“uomo nero”, aggressivo, pagato per picchiare la gente».


E invece?


«Invece vedo i ragazzi di oggi senza valori e senza amicizie. E soprattutto non hanno rispetto per sé stessi e di conseguenza neanche per gli altri. Vivono in un mondo che non c’è, tutto concentrato sui social network e sui cellulari».


È cambiato il modo di divertirsi nei locali?


«Sì, perché fino a qualche anno fa si andava in discoteca per ballare e conoscere nuove persone. Oggi l’obiettivo, soprattutto dei giovanissimi, è fare “casino” e sballarsi. E i genitori spesso li coprono. Sono padre anche io e capisco la tendenza a proteggerli, ma bisogna rendersi conto di quando esagerano».


Ad esempio?


«Pensano troppo all’alcol o peggio alle droghe. Prima ci si divertiva a cercare di abbordare le ragazze. Adesso si pensa allo sballo. Non sanno cosa si perdono».


Diventa più difficile arginare gli eccessi?


«C’è meno rispetto. Un tempo se la sicurezza si avvicinava e ti riprendeva si abbassava la testa. Oggi la prima risposta è: “Chiamo mio padre, ti denuncio e ti rovino”. Io credo sia giusto ripristinare la leva obbligatoria per imparare che esistono le regole. Oppure potenziare l’educazione civica nelle scuole».


La vita notturna a Padova negli ultimi anni si è molto “ristretta”. È l’effetto della crisi?


«È difficile tenere in piedi un locale oggi. Padova è molto cambiata: saranno rimaste quattro o cinque discoteche. E tutte fuori dal centro: un tempo c’era il Limbo in via San Fermo o il Lola Lola in Riviera Tito Livio. Troppi locali sono andati a morire lentamente. Manca la voglia di incontrarsi e di parlare».


Il locale più bello in cui ha lavorato?


«Il Deniro a Castelfranco. Era un giardino estivo, che d’inverno non funzionava. Ma con la bella stagione c’era anche il lago con i cigni. E faceva grandi numeri: con Raz Degan siamo arrivati a 12 mila persone, con Raul Bova a più di 10 mila. In media 7-8 mila ragazzi a serata. E fu il primo locale ad avere il laser: un raggio che si vedeva fino alla piazza del paese».


Avete anche il compito di scortare personaggi famosi. C’è qualcuno che l’ha colpita?


«Ho lavorato anche al Geox, a Piazzola e in vari concerti. Ma quello che ricorderò sempre è il concerto di George Michael dieci anni fa al Plebiscito. Una persona molto educata, gentile e per un certo punto di vista anche semplice. E poi un musicista che mette insieme genitori e figli con le sue canzoni. Artisti così si contano sulle dita di una mano».


Spesso dovete invece fare i conti con capricci e bizzarrie da star.


«Ognuno ha delle piccole manie o addirittura paure. Ho trovato anche chi aveva la fobia della folla. Un controsenso per un personaggio pubblico».


Ha lavorato anche in locali “da ricchi”?


«Alla Capannina, a Arsego, facevamo una domenica sera storica: arrivavano fino a 2 mila persone ma con un
dress code
rigidissimo. Se qualcuno si presentava con le scarpe da tennis non lo facevamo entrare. C’era un’eleganza da rispettare. Oggi credo che nessun locale si possa più permettere la selezione all’ingresso».


Le domeniche pomeriggio invece erano per gli adolescenti.


«Un fenomeno che ho visto nascere e poi morire. Oggi troviamo i minorenni che falsificano le carte d’identità per entrare nei locali a bere alcolici».


Da padre consiglierebbe a suo figlio di fare questo lavoro?


«Ci sono tanti ragazzi che vengono a chiedermi come fare. Però non so se consigliarli: la paga sindacale non è alta e per i rischi che si corrono forse non è più un mestiere appetibile».


Oggi serve una maggiore preparazione e il sangue freddo per gestire situazioni difficili.


«Ci sono i corsi, appunto. Dobbiamo saper gestire situazioni ad alto rischio, come incendi o i momenti di panico nella folla. Bisogna prendere decisioni in pochissimi secondi e mettere in sicurezza tutti. Abbiamo prassi che studiamo e ristudiamo, facendo anche delle prove. Poi però quando ci si trova davanti alla situazione reale di pericolo è sempre difficilissimo».


A Torino qualche mese fa il panico ha fatto centinaia di feriti.


«Servono vie di fuga molto ampie. E poi è meglio far entrare 500 persone anziché mille, così si riduce il carico di rischio. Però poi tocca litigare con i 500 che rimangono fuori».


Fino a quando farà il “buttafuori”. Ha mai pensato di smettere?


«Ci ho pensato e ci sto pensando. Sono diventato una sorta di “papà” per molti di questi ragazzi che ho visto crescere e diventare a loro volta genitori. Adesso ho 57 anni: questo è un lavoro per persone che hanno almeno 20-25 anni meno di me. Per me è sempre più difficile: certi eccessi non riesco proprio a capirli».


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