I tanti volti del quartiere di frontiera Stanga tra cambiamenti e i racconti di chi lo vive

la storia
stanga
“Zona sconsigliata”, veniva bollata su Tripadvisor nel luglio 2013, in risposta alla richiesta di una studentessa universitaria che doveva trasferirsi a Padova e cercava notizie su dove andare ad abitare. Un interdetto motivato in larga parte dalla famigerata via Anelli, quello che pesava sulla Stanga. Quella trasposizione padana del venefico Bronx newyorkese risentiva di una colossale mistificazione mediatica costruita attorno a un muro-non-muro eretto attorno alle tanto chiacchierate palazzine, presentate come un’enclave fuorilegge dove il solo girarvi attorno era ad alto rischio. In realtà si trattava di una banalissima recinzione; ma pochissimi dei moltissimi giornalisti che ne scrissero, anche di prestigiose testate straniere, si erano presi la briga di venire a verificare di persona. Uno dei pochi fu Giuseppe D’Avanzo, inviato di “Repubblica”, scomparso qualche anno fa: arrivò a Padova, si fermò qualche giorno, e chiese a chi scrive di accompagnarlo.
libro cartonero
Peccato non ci fosse allora, questo “libro cartonero” (libri di cartone riciclato decorati a mano in copia unica) che racconta la Stanga dal di dentro, con le testimonianze di chi in zona girava tranquillamente, senza mai trovarsi esposto al benché minimo incidente. Sarà presentato domani alle 20.30 nella sala parrocchiale S. Pio X, in via Grassi 44: contiene un reportage scritto dal giornalista Gianni Belloni e alcune foto scattate dagli studenti della media Pacinotti. Ma sarebbe comunque riduttivo, trattare come un fenomeno di degrado urbano (molto legato, è bene dirlo, dall’auri sacra fames di diversi padovani-bene che lucravano sugli affitti ammassando gente in ogni singolo appartamento) un quartiere che ha alle spalle una lunga e singolare storia: area di confine, come suggerisce il nome stesso “stanga”, essendo il punto del dazio attraverso il quale transitare per entrare in città. E come tutte le aree di confine, luogo di separazione ma anche di collegamento, di transito, di scambi: tra foresti e indigeni, tra padovani di periferia e padovani di centro, impegnati in diuturni passaggi che avevano la loro spina dorsale nell’asse lungo via Belzoni, con lo snodo di un Portello dove covava l’anima più popolare della città; non a caso confinante con quei Paolotti che oggi sono colta sede universitaria dello studio, e ieri erano sede carceraria dei colti sul fatto: in larga misura ladruncoli di biciclette, che trovavano nel parroco del rione un santo protettore pronto a farsi cuscinetto tra autorità costituita e piccoli delinquenti.
anima verace di padova
Era, quel Portello, l’anima cruda e verace di una Padova che conservava a distanza di secoli il Dna del Ruzante, dove il rude pavano aveva il sopravvento sull’aulica patavinitas. Ed era anche la zona extraterritoriale della città, in cui aveva messo radici la saga di Pace e Scheo, figure leggendarie, protagoniste di un’autentica epopea tradotta in memorabili barzellette tramandate di bocca in bocca. Adesso, a guardarla dall’alto, la Stanga è un cerchio atipico all’ingresso della città, assimilato a un colossale fagiolo, dove l’urbanistica delle funzioni ha triturato ogni traccia del passato, spinta com’è dalla logica del “direzionale” (uffici, affari, scambi commerciali, il trionfo del Pil costruito sul deserto delle relazioni).
primo avamposto
Ma un tempo era in realtà il primo avamposto di una campagna totale non ancora colonizzata dalla zona industriale, e dunque dipanata fino alla linea d’acqua della laguna e allo straordinario skyline liquido di Venezia. A ridosso di quelle quattro mura era già in qualche modo città moderna, con fabbriche come le Officine Stanga o la Viscosa, in cui si faceva teoria e pratica della produzione ma anche del movimento operaio; dove la coscienza dei diritti maturava a fatica dentro gli ingranaggi della catena di montaggio. Il piano della mobilità urbana dell’epoca era semplice e lineare in quanto collaudato da secoli: erano i piedi il mezzo di trasporto pressoché esclusivo, che in poco più di un quarto d’ora ti portavano nel cuore vivo della città, a conoscerne odori ed emozioni, volti e storie. La gente andava e veniva tra le due città, la periferia e il centro; e tra questi pendolari della scarpa figuravano anche alcuni dei gestori dei banchi di frutta e verdura delle piazze, centro commerciale ante-litteram a cielo aperto. Ci voleva, allora, un “libro cartonero” che fin dal nome evoca qualcosa di extraterritoriale, per restituire l’immagine dal di dentro di un pezzo di città ben diverso da quello cui migliaia di persone, padovani compresi, passa accanto durante la giornata. Senza accorgersi che lì dentro c’è una vita, fatta di tante vite. —
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