Ianniello, l’attore che ama le parole

Il vincitore del Campiello opera prima e finalista del Berto stasera a Luvigliano
Di Nicolò Menniti Ippolito
Gaia Bermani Amaral (S) e Enrico Ianniello, durante il photocall di presentazione della fiction di Rai1 'Un passo dal cielo' nell'auditorium dell'Ara Pacis, Roma, 8 aprile 2011. ANSA / GUIDO MONTANI
Gaia Bermani Amaral (S) e Enrico Ianniello, durante il photocall di presentazione della fiction di Rai1 'Un passo dal cielo' nell'auditorium dell'Ara Pacis, Roma, 8 aprile 2011. ANSA / GUIDO MONTANI

PADOVA. Chi è Enrico Ianniello? L’attore amato da registi raffinati come Toni Servillio e Nanni Moretti oppure la spalla comica e tenerona di Terence Hill in “Un passo dal cielo”? E ancora: il regista teatrale e cinematografico alle prese con due nuove produzioni oppure lo scrittore che presenta stasera a Luvigliano, alla Villa dei Vescovi “La vita prodigiosa di Isidoro Sifflotin” (Feltrinelli), il romanzo con cui ha vinto il Campiello opera prima ed è finalista al premio Berto, che verrà assegnato domani?

Come artista è partito dal teatro andando poi in tante direzioni. È un processo nato progressivamente o l’eclettismo c’era già in partenza?

«Tutto quello che faccio è fondato su due termini per me essenziali che sono gioco e parola. Questa è la costante di tutta la mia attività. Nasce a teatro ma poi può avere tante varianti diverse che non sono estranee tra loro».

Al primo romanzo, subito un Premio importante, successo critico, candidature ad altri premi. Cosa cambia?

«Cambia che adesso quando arrivo sul set mi prendono in giro. Per il resto c’è la grande soddisfazione che si sia compreso che il mio libro non nasceva dalla volontà di sfruttare la popolarità dell’attore per vendere copie».

C’è stata qualche perplessità nel passare dal teatro e dal cinema alle serie televisive?

«Assolutamente no. Quando mi hanno proposto di fare “Un passo dal cielo” ero con Moretti sul set di “Habemus papam” e lui mi ha detto: che mestiere fai? L’attore? Allora non importa dove lo fai, importa solo farlo bene».

Scrittore o anche lettore?

«Prima lettore. Ho molto amato gli scrittori febbrili come Dostoevskij e Celine, poi mi sono innamorato anche di alcuni autori sudamericani come Bolano o Cortazar, e anche di autori italiani come Montesano, che mi hanno indicato una strada per la scrittura».

Il protagonista del suo libro si esprime col fischio. Come nasce l’idea?

«Fischiare è sempre stata una mia passione, ma soprattutto volevo che il mio protagonista fosse dotato di una qualità straordinaria, ma in fondo comune a tutti gli uomini. Non volevo che volasse o avesse poteri strani».

Il libro è una favola ma è anche realistico. Come stanno insieme le due cose?

«Non ho mai pensato a qualcosa di favolistico tout court, anche perché - come dicono i miei figli- non sono capace di raccontare favole. Mi interessava parlare di personaggi che partendo da una realtà concreta si affacciano continuamente su qualcosa di misterioso e di straordinario. Come se camminassero sull’orlo di un burrone».

Nel suo libro domina il candore.

«Volevo che il mio fosse un controcanto rispetto al cinismo dei modelli che ci circondano. Ci viene raccontato bene quanto possiamo essere orribili, volevo provare a raccontare personaggi che incarnassero l’incanto, la fragilità, l’inutilità».

Anche la lingua è fondamentale in questo libro. È nata con la storia?

«Forse mentalmente è nata prima la storia, ma poi la lingua si è impadronita del testo e se ho un merito è quello di essermi lasciato trasportare da lei».

E dopo questo libro, dopo questo successo?

«Vedremo. In testa ho un pezzo di un altro libro ma ci vuole il tempo per scriverlo. Adesso sto girando un’altra serie televisiva e sto montando il mio primo film da regista. Doveva essere trasmesso direttamente da Raitre, ma ora la produzione è molto contenta e forse prima proveremo ad andare a un festival».

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