Il boss tradito dai suoi

PADOVA. Mentre le polizie di mezza Europa lo stanno ricercando dopo la stupefacente evasione dal carcere due Palazzi di Padova (14 giugno 1994), Felice Maniero se ne sta a Parigi, sotto le mentite spoglie di un architetto veneto in vacanza con la sua compagna, Marta Bisello. Telefona da un caffè a Padova. Ha appuntamento con Giancarlo Ortes che sta aspettando nella cabina telefonica di un bar a Ponte di Brenta. Quell'Ortes che faceva parte del commando andato a liberarlo ma che adesso sta collaborando con la Dia. La telefonata viene registrata dalla polizia, Ortes pagherà con la vita quel tradimento.
Altro retroscena spiazzante. Durante i suoi cinque mesi di latitanza, Maniero ha utilizzato un cellulare pulito, intestato a una persona insospettabile: il titolare di un salone di parrucchiere al Centro Giotto di Padova. Soffiata fatta agli inquirenti da un affiliato di medio livello della banda Maniero finito in carcere per spaccio.
La polizia ha sempre saputo dove si trovava Maniero dopo l'evasione. Perché non è stato catturato prima? È uno dei tanti enigmi rievocati nella seconda parte del libro "I segreti della banda Maniero" scritto da Enzo Bordin, edito dal nostro giornale e inserito nella collana “Delitti e misteri veneti”. Sarà in edicola da domani.
Mentre in pubblico i banchieri definivano, con aria truce, Felice Maniero «delinquente numero uno», in privato erano pronti a fare carte false per avere i suoi soldi, per maneggiarli come lui desiderava. Lo stesso Maniero rivela che alcuni di loro erano arrivati al punto di fornirgli carte di credito col nome falso, pur di poterlo elencare tra i clienti.
In un vecchio rapporto della Criminalpol c'è scritto che nei conti svizzeri di Maniero sono transitati, per poi sparire, almeno 50 miliardi di lire. Avrebbe investito altri 10 miliardi in attività lecite, aiutato in questo da quattro insospettabili. E' lo stesso ex boss a indicare quel quartetto di persone “per bene”. In realtà Maniero faceva l'imprenditore della montagna di denaro accuratamente nascosta in luoghi sicuri.
Rievoca la potenza della sua vecchia organizzazione e la vastità della rete d' informazioni: «Avremmo potuto uccidere qualsiasi magistrato del Veneto. Tramite gli infiltrati sapevamo tutto di loro: indirizzi, scorte, orari, numeri dei cellulari. Ma la mia politica è sempre stata quella di evitare spargimenti di sangue».
L'effetto pratico della collaborazione di Maniero con la giustizia, iniziata formalmente nel 1995 ma con approcci informali probabilmente antecedenti, fu enorme per la riconosciuta organizzazione mafiosa della mala del Brenta, la prima ed anche l'unica che il Triveneto ricordi.
Alla gang di Maniero vennero attribuiticentinaia di rapine, traffico di droga e di armi su vasta scala, bische clandestine e nove omicidi sui ventotto commessi dal 1981 al 1993 nell'ambito di una guerra tra bande. Bagno di sangue che vide prevalere Maniero e i suoi affiliati, divenuti una macchina da guerra così potente a ramificata da poter trattare con alcuni elementi mafiosi di spicco in soggiorno obbligato in Lombardia e Veneto, soprattutto per la droga.
Poteva lavorare in qualità e chi in quantità. Senza dimenticare i “colpi a effetto”: «Non mi abbassavo a fare le rapine, comunque non in banca dove basta puntare la pistola o il mitra per ottenere ciò che chiedi. Troppo piatto, troppo scontato: manca il brivido. Alla fine ci si annoia» diceva Maniero agli inquirenti che lo interrogavano dopo il pentimento.
Ma è soprattutto sui reati artistico-religiosi che Felicetto e la sua banda assumono il tratto distintivo dei professionisti di rango. La stupenda china di Dalì rimasta a lungo nella sua villa di Campolongo ne è la conferma. Oltre all'ideazione e alla realizzazione dei “colpi di risonanza internazionale”: la clamorosa rapina alla reliquia del Santo e lo stesso furto dei cinque dipinti di Velazquez, El Geco e Correggio rubati al museo estense di Modena. Grande. Dovevano tutti pensare che Felice Maniero era un grande.
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