Il cardiochirurgo Gerosa: «Il numero chiuso a Medicina è un falso problema, ecco perché»

Il direttore di Cardiochirurgia: «Favorevole se non ci sono aule e prof ma la selezione si fa a Scuola. Quanti medici servono? Per saperlo cominciamo facendogli fare il loro lavoro»
Simonetta Zanetti
Il professor Gino Gerosa, direttore della Cardiochirurgia
Il professor Gino Gerosa, direttore della Cardiochirurgia

PADOVA. Il numero chiuso? Un falso problema. Il professor Gino Gerosa, direttore della Cardiochirurgia dell’Azienda Ospedale Università, tra i figli della scuola di medicina veneta annoverati tra i luminari a livello internazionale, indica una terza via nel dibattito acceso sull’opportunità di mantenere o meno il numero chiuso per entrare a Medicina.

Un’analisi, la sua, che tiene insieme le ragioni della rettrice Mapelli e quelle del governatore Zaia, salvo superarle con un giudizio tranchant: «Non è questo il problema».

Professore, quando è entrato a Medicina c’era il test di ammissione?

«No. Era il 1976, e credo sia stato un degli anni in cui si è registrato il numero maggiore di iscritti».

E come è andata poi?

«La struttura non era in grado di reggere l’impatto sia dal punto di vista delle aule che dei laboratori».

Lei oggi è favorevole o contrario al numero chiuso?

«E una domanda che non può avere una risposta secca. Quello che posso dire è che sono favorevole al numero chiuso se la Scuola non ha le capacità logistiche e quindi aule, laboratori e insegnanti per accogliere tutti. Ma nemmeno questa è la soluzione».

Perché?

«Perché non è detto che studenti eccellenti saranno medici eccellenti e il compito di una Scuola è garantire un livello di formazione in grado di mettere in evidenza le qualità di ognuno. E questo non si fa con uno sbarramento in entrata. Ad esempio, in Inghilterra non c’è sbarramento ma non è concesso andare fuori corso. E già in questo modo si preparano gli studenti a dare il meglio fin dall’inizio».

«Dopodiché, nell’ambito di questo dibattito, bisognerebbe capire qual è il razionale di creare un numero elevatissimo di medici. Qui c’è, innanzitutto, un problema di sistema, che passa dal creare le condizioni per trattenere in Italia i laureati per la cui formazione hai investito».

«Inoltre, servono tutti? Non credo. In ospedale oggi i medici svolgono attività amministrative, tecniche e infermieristiche che molto poco hanno a che fare con la loro preparazione e che con uguale professionalità potrebbero essere svolte da altre figure professionali».

«Quindi bisogna cominciare con il restituire dignità e competenze alla professione medica liberandola da alcune incombenze. Bisogna riorganizzare il sistema in maniera adeguata garantendo l’accesso alla formazione a tutti alle stesse condizioni, garantendo cioè la possibilità di esprimere le proprie capacità e selezionando i migliori durante il percorso di studi».

Ma non è che nel dibattito si confonde il numero chiuso con la pertinenza delle domande del test?

«Nel momento in cui abbracci il numero chiuso i quiz saranno sempre fallaci e incapaci di fotografare il medico migliore. I ragazzi vanno messi nelle condizioni di esprimere le loro qualità e questo avviene più avanti».

A che punto del percorso universitario ritiene che andrebbe messo lo sbarramento?

«Basterebbe non consentire di andare fuori corso. Qui ce ne sono tantissimi. Ovvio è che c’è anche chi ha le sue ragioni: se un ragazzo lavora di notte per mantenersi non può rendere come gli altri. Ripeto, vanno garantite le condizioni di equità».

Quindi sta dicendo che servirebbero più risorse, sia per implementare la logistica, che per le borse di studio?

«Sì, più risorse per fare formazione e per attrarre laureati. Non è possibile che i medici del Pronto Soccorso si licenzino per andare a lavorare per cooperative in cui, per fare lo stesso lavoro, guadagnano il triplo. In questo modo il sistema si impoverisce in maniera drammatica e si devasta il rapporto con i colleghi».

«Com’è possibile che quasi tutti gli italiani che vanno all’estero abbiano successo, poi quando tornano in Italia ottengono risultati molto modesti al punto che fare ricerca è come spingere un tir con il freno tirato? Quello che cambia è il sistema: all’estero è organizzato».

Ma scusi, se domani si potessero iscrivere tutti coloro che sognano di fare il medico non rischieremmo una pletora di disoccupati, impossibilitati a specializzarsi?

«No, a Medicina c’è una selezione naturale molto forte, solo il 60% degli iscritti arriva alla laurea. Dopodiché è stato proprio per sistemare la pletora di laureati che a suo tempo si sono messi i medici a fare un sacco di lavori che non competevano loro demansionandoli. È proprio il concetto di base che va capovolto».

Proviamo così: se lei fosse il ministro della Salute come risolverebbe il problema?

«Riorganizzando il sistema. Partirei identificando, attraverso il sistema sanitario regionale, le posizioni ricoperte in ospedale dai laureati in medicina per fare il loro lavoro con una retribuzione adeguata. A quel punto, a bocce ferme, rivaluto se c’è carenza di medici. I nodi del sistema sono altri, ci sono problemi molto più importanti del numero chiuso».

«Di fronte alle sfide di oggi, va riformata la Scuola con quattro anni di formazione medica e due dedicati a bioingegneria, big data, rimettendo al centro le funzioni mediche e restituendo il giusto riconoscimento economico per consentire ai nostri di non andare all’estero. Vanno riorganizzati i sistemi regionali in centri unici di riferimento, luoghi di eccellenza in cui garantire l’assistenza e la formazione migliori. Una volta fatta la rivoluzione, quella sul numero chiuso diventa una domanda pleonastica».

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