Il patrimonio della Cultura e l’esempio virtuoso di Padova Urbs Picta

L’analisi di Fabrizio Magani, il Soprintendente alle Belle arti: «In questi anni abbiamo dato esempi positivi nella conservazione e nella tutela dei beni storici e architettonici»
Fabrizio Magani*
La volta del Battistero del Duomo di Padova con il famoso Paradiso parte del ciclo di affreschi di Giusto de’ Menabuoi
La volta del Battistero del Duomo di Padova con il famoso Paradiso parte del ciclo di affreschi di Giusto de’ Menabuoi

Non abbiamo avuto dubbi, in Soprintendenza, quando abbiamo progettato e realizzato il restauro degli affreschi di Giusto De Menabuoi al Battistero. Anche per una punta di orgoglio che ci lega alla tradizione di questo nostro Ministero: ha cambiato pelle tante volte, ma da quando è nato con l’Unità d’Italia ha sempre dedicato particolari e concrete attenzioni alla conservazione della Cappella degli Scrovegni e dei cicli pittorici del Trecento padovano.

Questa speciale lingua figurativa si è accompagnata alla tecnica del restauro con i suoi migliori interpreti. Non so spiegare se questo sia il senso dell’eredità, ma è certo che un anno fa, profittando di una parentesi di libertà dal Covid, è stato meraviglioso vedere tanta gente con gli occhi in su, verso quel sopramondo del Cristo e dei Santi che ipnotizzano.

Pare che ruotino e, involontariamente, noi con loro, come nella mistica danza dei Dervisci che avvicina all’Assoluto. A pensarci bene, forse è quella speciale armonia che risuona tra i cicli pittorici trecenteschi ad essere la fiamma che li ha forgiati nel patrimonio riconosciuto dall’Unesco.

Cioè Giotto, Guariento, Semitecolo, Altichiero, Giusto e Avanzi sono stati un esempio di scambio di idee nel mondo della figurazione; a Padova trovarono una città aperta, pronta a riceverli dalle loro varie provenienze toscane, veneziane, veronesi e bolognesi.

È stato un secolo che ha segnato l’identità della città, con quel suo tratto variabile che dal commercio la portava alla fedeltà della tradizione. Difatti non aveva perso l’orientamento sui resti visibili delle antichità, raccontati da Tito Livio, lo storico dell’Impero rimasto patavino, ovvero onorevolmente provinciale.

Insomma nella gloria degli affreschi leggiamo ancora fattori di libertà, d’innovazione e internazionalità che sbloccano le opere d’arte dalla semplice contemplazione del passato locale.

C’era qualcosa nell’aria già più di trent’anni fa – era il 1989, sempre di luglio – quando s’inaugurò al Salone la mostra “La Padova dei Carraresi”.

Mostra che continuava al museo civico con la puntata “Da Giotto al Tardogotico”. Basta rileggere gli editoriali dell’epoca per comprendere come i capolavori di quell’età colta che anticipava l’Umanesimo trovassero riscontri orgogliosi nei risultati contemporanei.

Una città al centro del Veneto, produttiva e organizzata con la sua industria e il commercio in espansione, i duecentocinquantamila abitanti, con l’occupazione in alto e, naturalmente, l’Università dei 50 mila iscritti e un numero di laureati al di sopra delle medie nazionali.

Si sarà voluto saltare sul carro leggendario degli antichi signori di Padova per rivendicare la vivacità del presente – questo era prevedibile nell’ordinare una lista di successi –, ma appare certo che già allora si pensasse alla cultura come risorsa di innovazione, inclusione sociale e sviluppo.

Verrebbe voglia di rivederla un’esposizione del genere. Magari per misurare ancora la temperatura della società padovana nel rapporto tra cultura ed economia, nella loro continua dialettica diversità tra passato e futuro, prima ancora di godere lo spettacolo delle opere. Che, nel frattempo, sono state restaurate e studiate, come al Castello Carrarese, grazie ad Anna Maria Spiazzi, o con la restituzione di Giacomo Guazzini a Giotto delle decorazioni in Santa Caterina al Santo: una nuova Cappella Scrovegni prima della famosissima all’Arena.

Se la cultura è una componente della cittadinanza attiva, con la partecipazione creativa forma valore sociale e funziona anche economicamente. Sono le regole basilari, oggi nella competizione globale, per le scelte del comitato Unesco, e così pure nel vaglio delle capitali della cultura o per il complesso delle iniziative di crescita a base culturale che obbligano a essere credibili coi progetti finanziati dal Piano nazionale di ripresa e resilienza.

Programmi che, potenzialmente, hanno il merito di muovere l’originalità locale e che richiedono un serio sforzo di coordinamento per stimolare congiuntamente alcuni temi strategici nelle future politiche culturali della città, ma direi anche per le prospettive di crescita del Paese.

C’è da sperare che il riconoscimento Unesco alla Padova di Giotto e dei cicli pittorici del Trecento non diventi un marchio commerciale per turisti che bruciano in un giorno le unicità del territorio, che sono tante: dai luoghi delle mura storiche, a Mantegna e Donatello, fino al racconto della città del Novecento.

È chiaro che bisognerà superare le tentazioni di un luogo in posa, cioè attrattivo per il solo fatto di esibire beni di particolare qualità (che sarebbe partita già persa), piuttosto Padova potrà dimostrare di muoversi nell’innovazione sociale e tecnica con quel suo collante particolare, che è la cultura dei patrimoni.

Credo che la Soprintendenza, nel suo specifico ruolo, in questi anni abbia dato esempi positivi nella conservazione e nella tutela dei beni storici e architettonici. Perciò oggi ci piacerebbe concorrere a una pianificazione costruttiva che sia al passo di obiettivi comuni, nostri e degli attori culturali e produttivi della città.

* Fabrizio Magani è il Soprintendente a archeologia, belle arti e paesaggio per l’area metropolitana di Venezia e le province di Beluno, Padova e Treviso

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