il personaggio»claudio bertolin

Sera dolce di fine primavera, uno spicchio di luna in cielo. Superata porta Portello, al di là dal fiume e tra gli alberi si fa musica. «Sugarpulp», sta scritto sul palco illuminato da bagliori di rosso e di giallo e dove tra poco inizierà il concerto del : «bianco che interpreta il blues come un nero». Lui è Claudio Bertolin, un ragazzo di 59 anni in camicia e jeans.
Tu sei nato qui, Claudio ?
«Qui di fronte. Dove vedi l’ istituto di Ingegneria, c’era una vecchia casa a due piani, in cui abitavano 10 famiglie. Uno dei miei vicini era Smoche come chiamavamo chi col carrettino portava il ghiaccio in piazza. Più avanti c’erano la fabbrica di biciclette Willer e vicino alla strada il gobbo Gaetani che rilegava i libri. Più in là la Anselmi, fabbrica di candele che dava lavoro a cottimo alle famiglie intorno, bastava infilare lo stoppino dentro la cera. A sinistra la centrale elettrica dell’Adriatica, che riforniva di luce l’intera città e infine un cementificio. Io ero l’unico ragazzino in un mondo di adulti e di vecchi, me ne andavo in giro mangiando pesche e prugne e perdendomi nei miei sogni. Per questo sono stato contento quando a dieci anni sono andato ad abitare all’Arcella: nel patronato di S. Antonino ho trovato un grande gruppo di amici, potevo finalmente giocare a basket, a pallavolo, a calcio fare a pugni».
A pugni ?
«Mi ero appassionato alla lotta greco-romana, dapprima in una palestra al Portello, poi al Cus Padova. Nel ’76, a 23 anni, ho vinto i campionati italiani assoluti della specialità.
Niente male, e la musica ?
«I primi sintomi della malattia blues li ho avvertiti ascoltando alle festine di mio fratello Guido, 18 anni più di me, le canzoni di Elvis Presley. Ricordi la sua riedizione velocissima di Allright now, mama ? L’originale era del famoso bluesman americano Arthur big boy Crudup ed io andavo pazzo per il primo Presley, come tutti i ragazzi della mia età. Sono passato dallo sport alla musica tra il ’76-’78, quando mi mantenevo facendo il bagnino al Nuoto 2000 e un po’ il bluesman. Nel ’77, con la rivista «Blues», cui aveva rilasciato un’intervista, avevo adottato come guru Cooper Terry. Un giorno l’ho raggiunto per un concerto a Milano, dove abitava. Cooper è rimasto colpito dal ragazzo che lo ascoltava a bocca aperta e mi ha chiesto se suonavo blues: sì gli ho risposto, perché lo suonavo con l’armonica in concertini con ragazzi frikettoni al Collettivo, a Radio Sherwood ed anche con Roberto Ciotti, famoso bluesman-chitarrista romano con cui ho fatto una tournée in Italia. Sono presente in due suoi dischi: uno live al Cristallo di Milano nel ’78 ed uno in studio nell’81 a Roma.
Chi era Cooper Terry ?
«Una bella figura d’ uomo. Fisicamente era un nero texano molto alto, molto colto, affascinante e molto amato dalle donne, bravo a dipingere, a suonare l’armonica. Aveva uno sguardo ipnotico, una voce caldissima e suonava lo slide al modo di Muddy Waters e Robert Johnson, due padri assoluti del blues, che lui reincarnava. Dall’ospedale di San Francisco, dove fotografava parti del corpo umano per proiettarle agli studenti, innamorato del blues, dopo un volo a Miami, decise con tre amici il gran salto in Afghanistan, India e da lì in Italia, a Torino. Loro rientrarono poi negli Usa, mentre Cooper sentì che doveva rimanere in Italia. Se ne tornò in patria solo nel ’93, malato, per morire un anno dopo a S. Francisco. Nel ’77 ero riuscito a portarlo a Padova con radio Sherwood al parco Nievo a un concerto che riscosse grandissimo successo. Nacque il mio connubio con lui, che si consolidò poco dopo in un viaggio in Spagna con lui e la sua donna. Siamo arrivati ad Ibiza e alle isole vicine con la sua R4 bianca suonando per strada ed acoltando in macchina tanti blues. E’ stato allora che mi ha trasmesso il suo modo di sentire sia il blues che la musica in generale».
Quando nasce il blues?
«Come lo intendiamo nell’accezione moderna, ai primi del ‘900 per opera del compositore e musicista nero W.C. Handy, conosciuto come il «padre del blues». Sua l’intuizione di trasformare una musica di interesse regionale in una forza trainante della musica popolare americana del XX secolo. La sua «Memphis blues» pare essere stato il primo pezzo del genere pubblicato. Negli anni ’20-30 il genere divenne la colonna sonora dell’America, scrive S. Fitzgerald ne Il Grande Gatsby: «Tutta notte i sassofoni emettevano il lamento senza speranza di Beale Street blues». Tutto nasce insomma a partire dagli anni ’12- 13 del ‘900 e cresce anche per merito della «Trinità del blues»: Maddy waters, John Lee Hooker e Lightnin’ Hopkins.
Per te il blues cosa rappresenta ?
«Lo vedo come «una strada solitaria in un giorno di pioggia». Blues è tristezza, ma anche saperla sublimare, trasformandola, in una visione di totale abbandono alla realtà. Quella di chi è «nel culo del barile», i rifiutati, i falliti, i perdenti. Mi ci sono trovato dentro anch’io ad un certo punto della vita. Non essendo Bertolin uno che sa vendersi, mi sono ritrovato per strada: un autentico clochard che suonava dove gli capitava e che aveva il suo ufficio sui gradini della Gran Guardia in piazza dei Signori a Padova. Ogni tanto qualcuno mi contattava per un concerto e comunque è stato periodo molto intenso, quello in cui mi sono vissuto come un autentico bluesman. Poi ho risalito la china, perchè quando tocchi il fondo le difese, le paure ed i pregiudizi si sciolgono e tu riesci a scorgere la realtà per quella che è . Nel ’93 ho incontrato quella che è oggi mia moglie ed allora una studentessa universitaria ed una cantante di musica leggera. Dalla nostra relazione è nato un bambino, che ha oggi 9 anni. Ora conduco una vita “normale “- chiamiamola così- che è il mio vecchio lavoro di bagnino ed una vita da bluesman. Mi ha aiutato l’amico Pino Zanellato, che dopo 35 anni in giro per il mondo per lavoro oggi in pensione per hobby monta stand alle feste di partito e mi ha rintracciato tramite My space. C’è stato un momento in cui ho pensato che il blues fosse morto, non scorgevo più realtà in cui esprimersi come mi aveva insegnato Cooper Terry e perciò mi ero ritirato. Adesso invece vivo la nuova visione della mia musica come la rianimazione di quella moribonda del passato , legata sempre alle radici su cui mi ero formato.
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