Il presidente di Pasta Zara rivela «Ecco come ho perso 22 milioni»

TREVISO. Diciassette milioni di euro di tasca propria in fumo. Altri cinque dalle casse della sua azienda, Pasta Zara. Bruciati in un colpo solo con l’implosione del valore delle azioni della Banca Popolare di Vicenza. Ora Furio Bragagnolo, protagonista - suo malgrado - di questo Titanic finanziario, è pronto a fare causa all’istituto di credito vicentino: «È normale», dice, «sto valutando con i miei legali come cercare di tutelarmi». E non è l’unico.
Quello della Popolare di Vicenza è stato ribattezzato un falò da sei miliardi di euro, e in quella enorme colonna di fumo ci sono molti quattrini di imprenditori locali. Furio Bragagnolo, presidente del colosso Pasta Zara di Riese Pio X (280 milioni di euro di fatturato 2015), è uno dei più esposti: è il ventesimo azionista dell’istituto di credito a titolo personale, posizione alla quale va sommata l’esposizione della sua azienda. «Cosa vuole che le dica», risponde di malavoglia al telefono, «ho ben poco da commentare». Gli icaro più in alto di lui hanno nomi come Cattolica, Generali, Nomura, Allianz: meno di una manciata sono singole persone fisiche. Ora, come detto, Bragagnolo ammette di «valutare con i propri legali» come difendersi. Gli chiediamo cosa ne pensi dell’azione di responsabilità contro la gestione Zonin, bocciata dall’assemblea: «In assemblea non ci sono neppure andato, ero all’estero per lavoro», dice Bragagnolo, «cosa vuole che dica». Gli chiediamo anche se parteciperà all’aumento di capitale, immaginando però che lascerà stare: «Ecco, si è risposto da solo».
Non sappiamo quando Bragagnolo abbia acquistato le azioni PopVi, quindi il calcolo della somma andata in fumo è puramente teorico: 17 milioni di euro è il valore massimo del suo pacchetto azionario (272.651 titoli) calcolato al prezzo più alto raggiunto, 62 euro e cinquanta centesimi per azione. A questi, come detto, vanno aggiunti i 78.815 titoli nella cassaforte di Pasta Zara, che al picco massimo valevano circa 4,9 milioni di euro. Ora, con in prezzo di quotazione fissato a dieci centesimi per azione, non restano neppure le briciole.
Situazione analoga per altri imprenditori veneti. Tra questi c’è Mosè Corazzin, mobiliere di Moriago, titolare di 72.417 azioni per un controvalore di circa quattro milioni e mezzo di euro quando il titolo valeva 62,50: contattato in azienda, non ha voglia di commentare. Ne ha poca anche Romolo Benetti, asolano, titolare della Conceria Cervinia di Cartigliano, Vicenza: in portafoglio ha 88.808 azioni, controvalore di cinque milioni e mezzo di euro al massimo splendore di qualche mese fa. «Farò un’azione legale, certo», dice Benetti, «e vorrei che la magistratura indagasse anche sul fatto che il voto sull’azione di responsabilità contro i vecchi vertici è stato chiesto dopo la trasformazione in società per azioni, quando i piccoli contavano già zero». L’azione è stata bocciata, fatto «molto grave» secondo l’imprenditore asolano.
I soci rilevanti, secondo l’atto depositato in Camera di commercio lo scorso 9 marzo e riportato dal Sole 24 Ore, sono un migliaio, con quote decrescenti. Il primo azionista storico e istituzionale che ha un rapporto di partecipazione incrociata con la banca veneta è la Cattolica Assicurazioni che ha tuttora in pancia lo 0,89% del capitale della banca vicentina. Quei titoli (894.674 pezzi) valevano fino a un anno fa quasi 56 milioni di euro, oggi poco più di nulla. Cattolica ha già dovuto svalutare pesantemente la sua quota nel bilancio del 2015. Subito dietro Cattolica c’è il primo socio non istituzionale: è Silvano Ravazzolo, 73 anni, imprenditore dell’abbigliamento con la sua Confrav che con il fratello Giancarlo detiene complessivamente l’1,5% del capitale della banca. Quasi 1,5 milioni di titoli che valevano fino a un anno fa un tesoretto di oltre 90 milioni di euro. «Diciamo così: pensavamo che Zonin fosse un buon parroco alla guida del suo gregge», ha detto Ravazzolo al Corriere, «siamo stati fessi a credergli». Anche se, per ammissione dello stesso imprenditore, i soldi con cui ha comprato quelle azioni erano quasi tutti della banca stessa, forniti tramite finanziamenti: l’enorme cane che si morde la coda che ha portato Vicenza (e anche Veneto Banca, secondo ipotesi finite sui tavoli della Procura) al baratro. La prima svalutazione (aprile 2015, da 62,50 a 48 euro per azione) era solo la prima scintilla del falò.
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