Il teatro si presta al cinema e corre verso il David

PADOVA. «Stavo portando in scena “La lezione di Ionesco” e “Le confessioni di Tolstoj”, quando mi sono reso conto di quanto il teatro dell’assurdo di Ionesco, Arrabal, Adamov, fosse attuale, considerato il relativismo che impera ai giorni nostri. Oggi il teatro è imprigionato in una dimensione politica che ne blocca le forze creative in strutture vecchie, infrangibili, difficili da penetrare da parte delle nuove generazioni. Con Dimattia abbiamo sviluppato il progetto, partendo da questo e stringendo lo zoom sul teatro. Il corto è infatti una sorta di denuncia della difficoltà del rinnovamento del fenomeno teatrale».
Toni Andreetta racconta la genesi di “La Lezione del Maestro”. Nel corto, che è in selezione per il David di Donatello edizione 2013, Andreetta è attore protagonista, e ha lavorato al soggetto insieme a Diego D. Dimattia, che è anche regista, produttore, attore in scena. Dimattia già nel 2011, con “Tonino e Colino, immigrati dal Sud….”, era stato selezionato per il David; allora non arrivò alla cinquina finale. Lui è un giovane autore, veneziano, con sangue pugliese, proveniente dal Dams di Padova, dove ha avuto come docente quel Toni Andreetta, padovano eccellente, professore di Teoria e pratica del documentario, attore, regista, che già aveva voluto nel corto “Nagasaki”.
Partendo da Ionesco, la storia racconta di un provino “farlocco”, di un maestro visionario e di una ragazza (lei è Aurora Salis alla prima esperienza davanti la macchina da presa). Lui è impotente e la ammalia con le sue elucubrazioni mentali, fra loro sembra nascere una relazione. Uno psicodramma con stili recitativi contrapposti, un po’ volutamente sopra le righe Andreetta, naturale Aurora e in mezzo Dimattia con un personaggio classico del cinema americano.
Girato fra novembre 2011 e 2012, fra Padova e Venezia, con fulcro a Mirano in Villa Barbarigo ora Rendina, è totalmente autoprodotto: «Se si fossero valorizzati economicamente costumi, location, attori» dice Dimattia «saremmo sui 40 mila euro. Non ho potuto fare riprese dall’alto con gru, usare carrelli, avevamo le luci ma non un direttore di fotografia, non c’è stato il tempo per rifare la battuta».
Seppur filmato in ristrettezze, emerge comunque lo stile del regista: «Devo maturare ma ho come fari Bellocchio, che è stato mio maestro, da lui attingo per manovre sulle camere e tagli a metà dei movimenti, e Linch che è per me un grande amore. Il mio stile, classico, con influenze americane, vorrei fosse un proiettile che si conficca nel cervello».
Continua Andreetta: «Diego credo abbia una capacità innata di perturbare in senso positivo la sintassi cinematografica, dando un carattere di originalità all’opera. Il suo montaggio, non cronologico, a tratti discontinuo, non ha una dimensione realista o naturalista, sconvolge i sincronismi tradizionali per far sì che ci sia una dimensione impressionistica. Comunica emotività».
La sceneggiatura parte dal teatro per divenire cinema, per lanciare un segnale: «Il teatro» sottolinea Andreetta «penetra nei luoghi non istituzionali, nelle case, grazie alle famiglie delle oligarchie a Milano e Roma, nelle carceri, come negli anni ’70. Ma i canali tradizionali sono cristallizzati. Gassman con il Teatro Stabile è riuscito nell’operazione di rappresentare novità assolute, testi di Trevisan, Carlotto, Michieletto, potrei dire rendendo il nostro il migliore teatro stabile italiano, ma serve una legge sul teatro di prosa, che chi ha vantaggi non vuole».
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