Il “Toso” che inventò la banda Maniero

Nella fiction “Faccia d’angelo” su La7 Elio Germano è Felicetto. Una lettura psicologica del bandito della Riviera
Di Enzo Bordin

«Della borsa di studio che te ne fai? È la carità dei ricchi che si sentono in colpa». Già alla fine degli anni sessanta, il non ancora diciottenne Felice Maniero alias “el Toso” ha le idee chiare nel motivare le sue scelte di vita: fare un sacco di soldi sfruttando debolezze e contraddizioni di una società veneta in via di rapida trasformazione.

È quanto emerge dalla prima delle due puntate del film-tv “Faccia d’angelo”, trasmesso domenica sera su La 7 per raccontare la storia criminale di Maniero, impersonato dal “romano” Elio Germano, costretto ad imparare non solo il dialetto veneto ma anche quello della Saccisica e della Riviera del Brenta, intessuto di espressioni gergali poco accessibili anche a chi vive nel Veneto. Ma la sua bravura non sta solo nella recita formale del personaggio, a capo di una banda organizzata che dal 1981 al 1994 ha messo a segno 28 omicidi e 200 rapine di medie e grosse dimensioni, ma anche nel cogliere lo spirito del “Toso”, emblema di una società nuova che, in nome del dio-soldo, si sentiva autorizzata a giustificare tutto.

Non a caso la fiction, tratta dal libro “Una storia criminale” di Andrea Pasqualetto e dello stesso Maniero, offre un taglio interpretativo volto ad analizzare l’humus socio-ambientale entro cui collocare le imprese criminali di questo boss poi costretto a venire a patti con la giustizia su tutto, tranne la parte più consistente del suo “tesoro” accumulato in 28 anni di scorribande da lui dirette ed eseguite dal un “esercito malavitoso” che, negli anni Ottanta risultava composto da circa 300 uomini.

Non solo: Felicettio Maniero poteva contare anche sulla collaborazione di servitori dello Stato, vere o false spie, infiltrati, avvocati, professionisti ed imprenditori compiacenti e numerosi altri cittadini “per bene”.

Nella sceneggiatura - scritta da Elena Bucaccio, Alessandro Semoneta e Andrea Porporati - viene icasticamente evidenziato il nuovo in arrivo, incarnato dal non ancora maggiorenne Maniero, contrapposto alla vecchia ma accorta mentalità contadina della madre (incarnata nel feuilleton da Katia Licciarelli) che ben si adatta al un duplice ruolo: quello della credente timorata di Dio destinata a convivere con quello luciferino di abile amministratrice delle fortune criminali del figlio. Inquadrata sotto tale profilo, la storia di Felicetto acquista uno spessore sociale che va oltre la trama della fiction.

Il Veneto passa dall’agricoltura ad un microcosmo di piccole industrie. Col mutare dell’economia mutano anche i tipi di reati da sottobosco: all’abigeato tipico dei “ladri da ponari” subentrano rapine a man bassa e grossi furti, attuati i nei confronti dei nuovi ricchi che sfrecciano in paese con le loro rombanti spider di lusso dopo aver rimorchiato la ragazza più "ganza" del paese.

Quando "el bocia" inizia a gettonare rapine su rapine, punta dritto sugli orafi vicentini sapendoli inclini a decentrare la lavorazione dell’oro clandestino, oro fantasma che sfugge a qualsiasi controllo fiscale e pertanto fonte di guadagni spropositati. Maniero agisce di conseguenza, col proposito iniziale di “togliere a chi ha troppo per darlo a chi ne ha bisogno”. Senza spargimento di sangue, perché “il sangue costa caro”.

Significativo in tal senso il colloquio interiore di Maniero col Crocifisso della chiesa in cui si è sposato. Così si rivolge al Signore: “Mi son puro, son forte, mi e ti podarissimo aiutare i poareti...”. È con questo spirito che mette a segno il colpo grosso all’aeroporto Marco Polo, arraffando 3 quintali d’oro lavorato prodotto da un’oreficeria vicentina e diretti in Germania. Ma verso la fine degli anni Settanta gli interessi criminali del Toso si spostano verso bische clandestine coi relativi scambisti e spaccio all’ingrosso di droga. Un po’ alla volta la banda Maniero allarga i suoi tentacoli malavitosi stringendo contatti con mafiosi di spicco mandati al confino nel Nord-Est. Nel contempo vengono attivate alleanze operative con gruppi di giostrai, fornendo loro appoggi logistici alla raffica di sequestri commessi anche nel Veneto e in alcuni casi finiti tragicamente.

Iniziano anche regolamenti di conti e omicidi a sangue freddo, nell’ambito di una guerra per il controllo del floridissimo mercato di stupefacenti a Venezia. Questo salto di qualità cambia lo status criminale dell'associazione: da banda Maniero a mafia del Brenta.

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