La casa della strega: il racconto inedito per voi, firmato da Paolo Malaguti

Boys running in field of flowers
Boys running in field of flowers

“La casa della strega” è il racconto che lo scrittore Paolo Malaguti ha pensato per i lettori del nostro giornale. Nato a Monselice nel 1978, Malaguti vive ad Asolo, insegna Lettere a Bassano; ha pubblicato con Santi Quaranta “Sul Grappa dopo la vittoria” (2009), “Sillabario veneto” (2011) e “I mercanti di stampe proibite” ; con Neri Pozza “La Reliquia di Costantinopoli” (2016, finalista allo Strega) e “Prima dell’alba” (2017). Il suo ultimo libro è “L’ultimo carnevale” (Solferino).

15/09/2017 Pordenone, Manifestazione letteraria Pordenonelegge, Paolo Malaguti, Scrittore
15/09/2017 Pordenone, Manifestazione letteraria Pordenonelegge, Paolo Malaguti, Scrittore

 

La casa della strega - PARTE 1

 

Quando ho aperto le imposte, ho sorpreso il gatto che salutava l’alba nel campo dietro casa. È un grande campo a foraggio, delimitato da una lunga fila di salgari. Da qualche settimana le talpe hanno iniziato a muoversi, attirando l’attenzione del felino. Invidio il mio gatto, l’unico essere vivente di casa a godere di una immutata libertà di movimento. Niente di nuovo: quando sono io ad avere libertà di movimento, invidio il mio gatto che può starsene a dormire sul divano mentre vado a lavorare.

Dopo colazione mi affretto ad accendere il computer, prima che la connessione inizi a saltare: devo caricare i materiali per le videolezioni. Non si va male con la tanto discussa didattica a distanza, ci sono delle belle sorprese, e devo per l’ennesima volta fare i complimenti ai nostri studenti per come affrontano la novità. Peccato però: quest’anno ho due classi quinte, ed è sempre un piacere accompagnarle negli ultimi passi verso l’esame. C’è un momento in cui qualcosa cambia nell’aula, ed è anche una questione di clima. Le giornate si allungano, gli alberi dei viali mettono i germogli, il sole alle finestre scalda di più. E i ragazzi percorrono le ultime tappe, gli ultimi autori, le ultime interrogazioni con una sorta di trasognata agitazione negli occhi: hanno diciannove anni, la vita davanti, l’università dietro l’angolo, ed è primavera. Peccato non poterli accompagnare di persona quest’anno, peccato dover spiegare e ascoltare le loro domande da uno schermo o da un auricolare.

Mi affaccio di nuovo alla finestra. Il gatto è ancora lì. Vorrei scavalcare la rete ed entrare nel campo, fare compagnia al gatto. Sentire l’erba bagnata sulle gambe, provare la tentazione di nascondermi dietro ai ciuffi più alti, anche se adesso riuscirei a fare solo la figura del macaco con i vicini di casa. Lo so bene perché quel campo mi attira così tanto: devo fare finta di niente, basta un attimo e lo spiraglio luminoso dei ricordi fa scappare via la mente.

Se penso al primo spazio chiuso della mia infanzia non si accampa di fronte agli occhi l’appartamento padovano dell’Arcella, ma il cucinino di mia nonna. Sarebbe corretto scrivere “dei miei nonni”, ma il cucinino era proprietà della nonna, c’è poco da girarci attorno. Oggi non funziona più così, si predilige lo spazio aperto, il soggiorno con angolo cottura. I miei nonni avevano invece la sala da pranzo, con il grande tavolo, e il cucinino, un rettangolo angusto e scuro d’ombra in cui ora mi ritrovo in modo imprevisto. Non è spiacevole quello spazio chiuso, per due ragioni ben precise.

La prima: lì andavo a coltivare la mia amicizia col frigo. Nel frigo mia nonna teneva il latte (cioè, la latte) a lunga conservazione, a mio avviso decisamente più buono del latte fresco che si beveva a casa, e soprattutto teneva una scodella eternamente piena di maionese. Pareva una di quelle pignatte magiche delle fiabe, che continuano a buttare in eterno marenghi d’oro: per quanto attentassi all’incolumità della maionese avita, la volta successiva la ritrovavo sempre piena, bastava scostare la pellicola di nylon, immergere il dito rompendo la lieve vetrificazione sulla superficie, e scappare prima che scoprissero il furto. La seconda ragione per cui il cucinino mi piaceva: quello spazio angusto era un punto di partenza o un punto di arrivo, un inizio o una fine. Ma nel mezzo c’era il viaggio, l’avventura… Ed è proprio una di queste avventure che adesso mi porta via con sé. Un’avventura di tarda primavera.

Per carità, a volte l’avventura capitava pure d’inverno. Se non pioveva o non c’era nebbia, si riceveva l’imprevista autorizzazione ad andare lì fuori… Ma era tutto un altro paio di maniche. Intanto l’erba era giallastra, o percorsa da strisce di fango ghiacciato dove erano passati i trattori. Le vigne erano nere e tristi, i campi spogli. E poi, per quanto presto ci muovessimo da Padova, a Sant’Angelo di Piove, il paese dei nonni, si arrivava per le tre, tre e mezza… nemmeno due ore, e già calavano le tenebre. Senza contare che bisognava stare attenti a non sporcare scarpe e cappotto. Ma, sopra ogni altra cosa, bisognava stare attenti a non sudare. Credo che “non sudare” sia l’imperativo che più di ogni altro ho sentito sulle labbra di mia madre. Forse è la frase che in assoluto mi ha rivolto con maggiore frequenza. In effetti se faccio risuonare nella mia mente la formula “non sudare”, la trovo perfettamente in linea, per cogenza e sacralità, con “non desiderare la donna d’altri”. Chissà se Dio aveva dettato anche quest’undicesimo comandamento, quella volta. Forse Mosè l’ha grattato via dalle tavole perché, scendendo di corsa verso il suo popolo intento ad adorare il vitello d’oro, avrà finito col sudare un pochettino, e non gli pareva buona cosa iniziare tutta la trafila con un’infrazione così eclatante. Comunque: visto che mia madre mi calava sulla testa il suo comandamento mentre mi infagottava tra berretti e sciarpe e doppie canottiere di lana pungente, non sudare significava muoversi lentissimamente, rendendo quei giri invernali all’aperto più penosi che altro.

Ma il discorso cambiava proprio con la primavera. Ricordo la tensione che si caricava nell’aria del salottino, mentre aspettavamo: era una tensione in tutto e per tutto simile a quella che si sviluppava al mare, sotto l’ombrellone, nell’attesa spasmodica che la mamma decidesse che avevamo finito di digerire, e che potevamo buttarci nelle acque dell’Adriatico senza correre il rischio di farci venire un colpo. Bisognava fare un po’ di anticamera coi nonni, in fin dei conti eravamo lì per loro, e quindi bisognava stare fermi attorno al tavolo, far finta di ascoltare, ma con il morbìn addosso, strofinando le suole sul pavimento, attaccandosi con le mani ad ogni superficie tontonabile, che fosse la frangia della tovaglia, la manica della nonna, o, sacrilegio, il giornale del nonno. Finalmente la strategia della tensione dava i suoi frutti, e arrivava una sorta di autorizzazione: ‘Ndè fora, ‘ndè via, se no, come che ve go fato, ve desfo.

Ci basta quello. Siamo già in piedi, non importa quanti siamo, se solo fratelli, o anche cugini, variabili di volta in volta per genere, numero ed età. Si corre verso il rettangolo di luce bianca del portone, si preme il pulsante che apre il cancelletto verniciato di bianco, e si è fuori. La campagna è subito lì, a destra del cancelletto, basta superare la stradella e varcare una rete da noi debitamente piegata e disarticolata per garantirci quel transito magico. La campagna. Mentre ne scrivo la vedo con una chiarezza che quasi mi ferisce: gialla di pissacani, lunga, e larga, e con quel cielo che con gli anni impari a riconoscere come tipico della profonda pianura veneta, azzurro di un azzurro un po’ più pallido di quello pedemontano, più luminoso in certi giorni, e, se il vento tira dalla parte giusta, già profumato del mare non così lontano.

Una volta entrati, il campo da gioco aveva confini precisi, il più delle volte non detti, ma chiari a tutti. Da un lato il cimitero, laggiù in fondo a destra, vicino al grande campo da calcio, dove non si poteva entrare però, perché lì ci giocavano “i grandi”, e comunque perché desiderare una distesa di erbetta insulsa, quando hai a disposizione tutto il resto? Dall’altro la casa del signor Michele, che poi era il padrone del fondo su cui ruzzavamo, e che, per conto suo, non ci avrebbe creato chissà che problemi, anzi si fermava sempre a salutarci, qualche volta ci dava dei cappucci da portare in regalo ai nostri genitori, e mia nonna, quando doveva preparare l’orto, andava a chiedergli una secchia o due di letame, visto che lui aveva le vacche. No, il problema vero, che rendeva quel confine più temuto ancora del cimitero, era suo figlio, l’erede della campagna, Giovannino. Serio e taciturno, credo di averlo visto sempre da distante, nonostante ciò eravamo tutti placidamente convinti che nella scala di malvagità dovesse venire subito dopo il Lucifero affrescato sul soffitto della chiesa di Sant’Angelo, che ha la faccia compagna a Victor Mature che fa Sansone, ma senz’altro prima di Mister X, l’emissario con la pelle violacea della Tana delle Tigri. Il quadrilatero era chiuso, laggiù in fondo, dal fosso che separava i campi dalla strada asfaltata, su cui passavano sporadiche automobili. Devo dire che poche volte ci siamo spinti fino a quelle Colonne d’Ercole, e sempre a malincuore. Il fosso era largo, l’acqua opaca, e mi piaceva solo quando, d’inverno, formava una spessa crosta di ghiaccio da provare a rompere a sassate. 

Se provo a richiamare alla mente i giochi con cui abbiamo fatto ardere le nostre estati su quei campi, in verità ne trovo ben pochi. L’importante era l’essere lì, non cosa lì si combinava. E l’aspetto più rilevante dell’essere lì credo avesse a che fare con l’assenza degli adulti, rimasti a contarsela nel salottino, e con la totale mancanza di strutture precise. Quei campi non erano come i giardinetti del patronato, con le giostrine pronte. Erano un’arena nella quale di giorno in giorno le sfide erano nuove, pur essendo giocate nello stesso spazio. Lungo la vigna, fondamentalmente, si correva. Quando si era prossimi alla vendemmia ci arrivava il divieto esplicito di toccare i grappoli, ma quando gli acini erano ancora piccoli e verdi, andavano benone per caricare le fionde, perché non facevano troppo male, e ti macchiavano la maglietta, così non potevi contare una balla dicendo che non eri stato colpito. Dopo la vendemmia, invece, facevamo a gara a chi trovava gli ultimi riccioli d’uva mora lasciati dai vendemmiatori in mezzo ai pampini ormai gialli e arancioni. Raccoglievo quei pochi acini sempre con un po’ di senso di colpa, perché la nonna ci aveva detto che i contadini li lasciavano per i merli, perché avessero di che mangiare lungo l’inverno.

Altro discorso con il campo di erba spagna, che a volte mia nonna chiamava erba medica, e ancora oggi non so se vi sia differenza, e, nel caso, quale sia. Quando l’erba spagna era bella alta, correrci dentro, e buttarsi a terra, immergersi nel verde e spiare da che parte venisse l’attacco dell’esercito nemico, mi dava un’emozione che non so più ridire. Mi piaceva, nell’eccitazione del nascondimento, scoprire all’improvviso che proprio davanti a me, lungo uno stelo, una cetonia si dondolava pigra, o che si era formata quella bavetta bianca, che pareva saliva, dentro alla quale forse riposava un insetto sconosciuto, misteriosa al pari della merda de luna sulla corteccia del pruno.

Ancora diversa la faccenda, invece, nel campo di formentòn. Quello era il campo della paura. Finché il formentòn è verde e non troppo alto, ancora ancora le cose funzionano. Ma quando l’estate è matura, e le piante sono alte più di due metri, e gialle, secche, allora entrare nel campo è un affare serio. E lì capisci se, per dirla col nonno, te sì bon da ‘ndar militare, o, al contrario, te sì delicato confà e tete dea regina (o dee muneghe, a seconda). Lo confesso, più di una volta mi sono scoperto mio malgrado delicato come i seni sabaudi. Ma quando ad agosto il sole, nella pianura veneta, si pianta lì in alto, e non si muove più niente nel mondo, e solo il lieve tremito delle foglie dei pioppi lontani ti fa capire che qualcosa in effetti è ancora vivo, oltre a te, entrare nel formentòn ha a che fare con la vita e la morte.

È una questione di ombra, prima di tutto. Entri in un gioco infinito di lame scure che ti stampano addosso un caleidoscopio di foglie ferme, ti disorientano, ti abbacinano, perché il sole, sopra di te, gioca ad apparire e sparire, e i tuoi occhi non si abituano. Poi è una questione di terra secca sotto ai piedi, terra sabbiosa, sofferta, piagata dalle crepe della siccità, e mentre te ne stai lì, accovacciato in attesa che qualcuno venga a trovarti, non puoi fare a meno di guardare in quelle sottili crepe scure, e ricordare come, in tante storie che hai letto, da crepe simili spesso siano pronti a sgusciar fuori diavoli o anime di morti. E infine, su tutto, è una questione di suoni a metterti il cagotto nelle braghesse se ti fermi troppo a lungo nel campo di formentòn. Perché non c’è un alito di vento, l’aria è smorta, umida, quasi densa, eppure lì in mezzo senti distintamente il crepitio sordo di qualche foglia. E se non c’è vento, cosa muove allora le foglie del formentòn? Cosa ha provocato lo schiocco sordo poco lontano da te? E quell’uggiolio appena appena udito, da chi, o da cosa, poteva provenire? 

 

La casa della strega - PARTE 2

Rear view of boy walking with slingshot in field
Rear view of boy walking with slingshot in field

La paura, quando sei bambino, è straordinariamente prossima alla gioia, lacrime e boresso sono due universi opposti eppure tangenti. E mentre, nascosto nel campo di formentòn, i tuoi muscoli si caricano di elettricità, e lotti contro te stesso per resistere altri dieci secondi, altri nove, otto secondi prima di scattare e correre a testa bassa, incurante delle foglie che ti graffiano e ti tagliano le braccia, lì, in quel brevissimo ma lucido istante di immobile terrore, esattamente lì capisci, non a parole, quelle magari arriveranno con gli anni, capisci con lo stomaco e con la gola cosa significhi essere vivo, ed essere vivo in un luogo preciso. Poi l’ultimo fruscio, o l’ultimo ciangottio, vero o immaginato poco importa, spezza l’equilibrio, e parti con i capelli dritti sulla nuca, certo che riuscirai a fare solo pochi passi prima che una mano, nera e pelosa, e con le unghie aguzze, ti abbranchi per la schiena, tirandoti nel cuore segreto del formentòn, per sempre. E infine, quando la mano non ti blocca, e tra le foglie davanti a te scorgi il confine del campo, il filare di vigna, la maglietta arancione di tuo cugino rimasto ad aspettarti, ecco la fiumana della gioia che ti invade, e ti espande i polmoni, e ti scalda più del sole ancora immobile in alto nel cielo, perché d’estate i pomeriggi di gioco in campagna durano quanto un’esistenza, ma ancora non ti bastano, forse perché a quell’età, e in quegli spazi, sei immortale come gli dei antichi che più tardi incontri sui banchi di scuola.

A proposito di banchi di scuola: devo dire che per un certo periodo il mio giudizio di studente nei confronti degli autori che ci venivano proposti passava per quelle forche caudine: se raccontavano di esperienze in qualche parte assimilabili ai miei vissuti di gioco e di avventure nei campi del paese dei miei nonni, allora me li facevo andare bene, altrimenti li accumulavo nella pila della ratatuia letteraria. A volte cascavo malissimo, penso a “Una donna” di Sibilla Aleramo impostaci al ginnasio, ad oggi uno dei libri che più ho odiato. Altre volte cascavo decisamente bene, penso a Rigoni Stern, o ai duelli tra Achille ed Ettore. Altre volte, infine, c’era, sì, qualcosa di analogo, ma le differenze erano davvero troppo marcate. Tipo D’Annunzio. Che poi negli anni ha continuato a starmi sui totani per una serie di ragioni, ma che al ginnasio, quando ci impiantammo su “La pioggia nel pineto”, mi fece semplicemente ridere.

In primo luogo: quel macaco, e questa opinione ancora non mi è svanita dalla testa, nelle parole che rivolge a Ermione, doveva proprio spingere la finzione poetica fino all’imperativo? Va bene che era un superuomo, ma è mai esistito, nella storia del genere umano, un essere appartenente al genere maschile in grado di emanare un ordine a una donna, e di uscirne più o meno indenne? Ma soprattutto, tra tutti gli imperativi che poteva scegliere da rivolgere a una donna, D’Annunzio doveva proprio scegliere il più scivoloso, pericoloso e autolesionista? “Taci”. Mio nonno gridava almeno una volta ogni quarto d’ora “Tasi!” a mia nonna, e, non proprio con la metrica dannunziana, accompagnava l’invito con espressioni colorite (chea vaca de to àmia era la più frequente). Sempre invano.

In secondo luogo: D’Annunzio chiude la lirica con la descrizione di quella corsa nella natura “E andiam di fratta in fratta, / or congiunti or disciolti…” e leggendo mi domandavo se davvero l’orbo veggente avesse mai fatto una corsa non dico in un bosco, ma almeno in campagna. Ho perso quel primo, maldestro tentativo di imitazione, ma con un mio compagno di banco ci provammo pure, a scrivere la corretta versione della poesia, quella che D’Annunzio avrebbe sul serio dovuto pubblicare… Vado a memoria, spero di rendere il senso generale:

Corriam per la campagna, / tra vigne ed erba spagna, / le gambe non ci accarezza la spica, / ma la sua pungente amica, / l’ortica, / che ci fa sacramentare, e invano / Dio invocare. / E qui non c’è più Ermione, / coi vestimenti leggieri, / ma l’enorme Simone, / e se “Taci” gli dico / per i peri m’appenderà a quel fico.

Qui iniziava una digressione sulle dolorose peri-pezie per scendere dal fico.

Comunque, posso dire che avere avuto il privilegio (forse ormai difficile da ottenere per le nuove generazioni) di un’infanzia vissuta in un contatto già debole e intermittente, ma comunque vivo, con un mondo così radicalmente altro dal mio, mi ha offerto una pietra di paragone preziosa con tante successive esperienze dell’immaginario, a partire proprio dalle letture. E infatti quando ho incontrato i romanzi di Stephen King credo che uno dei fascini più profondi che subivo nei confronti di quelle pagine fosse proprio dovuto alla memoria con le esperienze “di paura” che ho potuto vivere in quella fetta di campagna attorno a Sant’Angelo di Piove.

Poche cose, a raccontarle oggi: la storia narrataci da mia sorella di fronte alla pietra tombale di una donna, la foto in bianco e nero ormai ridotta a un’ombra, rimasta integra tra le macerie dei lavori di sistemazione del cimitero. Un nascondino disputato a ridosso di un temporale estivo, uno di quegli scravassi pomeridiani che improvvisamente coprono da est il cielo di un nero violaceo e compatto, con i lampi che raffreddano di luce ferrigna i toni caldi del sole già basso a ponente, e ancora non c’è vento, né pioggia, e tu sei lì nascosto, e speri che ti vengano a scoprire presto, perché il turbine già squassa i campi appena oltre il fosso, ma non ti muovi, e aspetti tremando che il fulmine ti colga riducendoti in cenere.

Un’avventura per me particolarmente paurosa credo valga la pena di essere ricordata. Va tenuto conto che all’epoca, giusto per non farmi mancare nulla, stavo leggendo appunto “Le notti di Salem” di King. Un romanzo di vampiri, che da qualche notte mi faceva dormire con la luce accesa, una testa d’aglio sul comodino e la madonnina di plastica con dentro l’acqua di Lourdes (o ciò che ne rimaneva) sotto al cuscino.

Sono con mio cugino. Prima ho detto che di cugini ne ho tanti, ma con uno soprattutto ho legato, perché siamo coetanei. Strane amicizie, quelle tra cugini, fiorite prima, o ai margini, delle altre amicizie forse più forti, quelle di scuola o di oratorio, e rinfocolate in quei grandi incontri di famiglia che oggi, pure loro, sono forse passati di moda, comunioni, cresime, matrimoni… Amicizie a misura di domenica dai nonni, di sagra del paese, di pranzi al ristorante con la camicia e la giacchetta buona in cui, manco a dirlo, non si può sudare.

Insomma, non so bene perché, ma quel giorno noi due ci troviamo un po’ fuori dalle rotte abituali dei nostri giochi, la campagna è sfilata via, ci siamo spostati in una zona marginale e poco nota del nostro regno. È una casa morta del paese, chiusa tra una gran macchia di vegetazione incolta, rovi perlopiù, e un quadrilatero di terra battuta che dovrà, presto o tardi, diventare un parcheggio, o qualcosa di simile. Doveva essere una casa bella al tempo, è su due livelli più la soffitta con le finestrelle a mezzaluna. Il tetto in coppi ancora regge, anche se si mostra imbarcato in più punti. È una casa abbandonata, con le imposte sbarrate e il portoncino di legno chiuso con un lucchetto. Dall’alto dei nostri dieci, forse undici anni, quella casa può essere chiusa da vent’anni o da duecento, è lo stesso.

Ci sono due motivi ben precisi per cui ci siamo sempre tenuti lontani da quella zona. Il primo motivo è più superficiale, ed è legato al divieto dei nostri genitori: lì non bisogna andare perché si possono fare brutincontri. Ancora oggi penso che a volte gli adulti dovrebbero parlare chiaro e tondo con i bambini, perché a tenersi sul vago si rischia di fare peggio… o meglio, chissà, se non altro si esercita l’immaginazione!

Forse mia madre temeva che ci avvicinassimo troppo al centro del paese, con la strada trafficata, o con i “tosatoti da ostaria” che facevano cagnara davanti ai bar, ma quei misteriosi brutincontri avevano fatto fiorire nella nostra mente immagini vaporose di pericoli, rapimenti, uccisioni. Ma non era solo quello a tenerci lontani dalla casa morta. C’era dell’altro, e non era un divieto. Era stata una storia, che una volta mia nonna ci aveva raccontato mentre camminavamo verso il casoìn. Ce l’aveva buttata lì, in tutta tranquillità, forse senza renderci conto dell’impressione che ci aveva ingenerato. “Là ghe gera na striga”. Così aveva iniziato. E insomma veniamo a sapere che non nel tempo vago delle fiabe, ma nel tempo storico delle memorie del paese, in quella casa c’era una strega, e un giorno la strega si era affacciata proprio a quella finestra lì, l’ultima a destra del primo piano, sul lato che dà verso la campagna, e aveva detto a una bambina: “Putea, va’ là, va’ torme quel nissolo che ‘l vento m’ha robà”. E la bambina aveva risposto: “No che no ghe vago”. Al che la strega aveva fatto un gesto preciso nell’aria, che mia nonna però non ci aveva voluto far vedere, e aveva detto che il giorno dopo i capelli le sarebbero diventati come stoppa. E i capelli della bambina, i più belli e invidiati in paese, le divennero secchi e dritti come le spighe mietute, e perché le tornassero normali aveva dovuto fare un pellegrinaggio sulla tomba del Santo con tutta la famiglia.

A ripensaci adesso, ci sono delle domande che avremmo dovuto fare a mia nonna, prima fra tutte come poteva conoscere quelle storie, lei che era arrivata sposa a Sant’Angelo da fuori, addirittura da Castelfranco; o se era davvero il caso di andare a disturbare Sant’Antonio per dei capelli appena imbruttiti. Ma a quell’età ci facevamo bastare quello che ci veniva detto dai veci, e così ancora oggi ci sono parecchi punti interrogativi nelle storie di cui serbo memoria, come il prozio ex partigiano che veniva ogni tanto a fare lunghe partite a briscola con il nonno. Anche mio nonno a modo suo era stato partigiano, ma lui non diceva molto perché il mondo, a suo avviso, era pieno di “figure porche e sepolcri imbiancati”. Il prozio invece, più aperto, ci raccontava le sue imprese, che poi erano sempre due: andare a far saltare un ponte sul Brenta (occhio: andare a farlo saltare, non farlo saltare… L’impresa era il viaggio in bici) e poi “andare a far fare pipì agli aerei”. Ce lo diceva così, in italiano, e sempre con uno sguardo tra il complice e il misterioso. Ancora oggi mi domando come si aiutino gli aerei nella minzione, e dove.

Ad ogni modo, tornando alla casa della strega, già solo con questi presupposti c’era da farsela nelle braghesse, ed ecco che si mise in mezzo la finestra rotta. Perché, in quel famoso pomeriggio, bazzicando da quelle bande notammo con un brivido (o almeno il brivido fu mio) che una delle finestre al pianterreno, dalla parte della campagna e seminascosta dai rovi, era stata sfondata. Non so chi fu, se io o mio cugino, a lanciare l’idea dell’esplorazione. Fatto sta che, senza quasi che ce ne avvedessimo, ci trovammo fermi sul limitare del roveto, a cinque metri da quel varco scuro.

Ricordo con precisione che iniziai a sentire la paura e l’eccitazione sulla schiena, e ricordo che in quell’istante capii che stavamo per compiere un’impresa, che quel momento sarebbe rimasto. Anni dopo lessi qualcosa di simile sulle pagine di Meneghello, che anche per questo amo profondamente, quando ricorda in “Libera nos a malo”: “Qui cadde un silenzio fondo come un buco. Mino guardava imbambolato, con la bocca semiaperta, la Marcella sbarrava gli occhi, Ciacana che si grattava un braccio si fermò. Ecco qua. Bìcego, è immobile, ha gli occhi socchiusi, le labbra stirate, non c’è espressione nel suo viso. So cosa sta per accadere, almeno so il nome della cosa. Questa è la Lotta con Bìcego: pare un sogno e invece è vero”.

Ecco, quello che io e mio cugino stiamo per compiere mi è chiaro davanti agli occhi, almeno nella sua definizione: questa è la Cerca della Strega. E a scriverlo ancora rabbrividisco. Prima di muoverci mi volto a guardare il sole, e la casa dei nonni. Il sole lo guardo per capire quanto manchi al tramonto: so bene, lo sto leggendo in Stephen King, che c’è sempre il macaco di turno che si fa sorprendere dal tramonto nel cimitero, o nella casa che ospita un vampiro nei suoi recessi più bui. La casa dei nonni la guardo per calcolare un attimo le distanze: se ci sarà da correre, almeno io spero di farcela. Se mio cugino resterà indietro, beh, lo piangerò amaramente.

 

La casa della strega - PARTE 3

Old and abandoned cottage surrounded by olive and carob trees grove with the Mediterranean sea in the background. Andalucia, Spain.
Old and abandoned cottage surrounded by olive and carob trees grove with the Mediterranean sea in the background. Andalucia, Spain.

Prima di entrare nella casa della strega io e mio cugino dovremmo dotarci di armi, ma non c’è tempo, e farlo significherebbe tornare fino al fosso per tirar su qualche bastone, o peggio, entrare nel garage dello zio per rubargli qualche ferro… troppo tempo, ormai ci siamo, e bisogna fare con quel che c’è. Io tiro su un mezzo mattone che sbuca tra l’erba alta, mio cugino, più fortunato, trova una bottiglia di birra. Lo abbiamo visto fare tante volte nei film, un colpo secco alla base e hai un’arma potentissima. Mio cugino il colpo lo dà bene, ma forse le bottiglie dei film sono di altra pasta, questa qui in pratica si polverizza con un crick quasi ridicolo, lasciandogli in mano una pipetta di vetro lunga sì e no cinque centimetri. Ma pal secco l’è bona anca ea tempesta, e quindi andiamo avanti. In mezzo ai rovi ci muoviamo imitando fedelmente le movenze studiate a lungo in Predator, che non avremmo potuto vedere, perché è un film violento, ma ce lo siamo visti lo stesso tutti e due, di nascosto dai genitori. La strada del paese è sì e no a venti metri, sento passare le motorette e sento anche il parlottio discreto di due vecchie che si scambiano pettegolezzi davanti alle strisce pedonali che portano alla piazza. La cosa mi disturba, il momento è per noi epico, pericoloso e decisivo, e vorrei un minimo di collaborazione dal contesto circostante. Ma le cose vanno così nella vita, e non ci puoi fare molto.

Arriviamo con il fiato già corto per l’agitazione a un metro dalla finestra. L’erba lì davanti è calpestata. La cosa dovrebbe tranquillizzarmi, ma in fin dei conti chi mi dice che quelle impronte non siano di qualcuno, o qualcosa, rimasto per anni celato nella casa, e improvvisamene uscito da lì in cerca di vittime sacrificali? La finestra è altina, non si tratta di saltarci dentro comodamente, uno di noi dovrà fare da scaletta a quell’altro. Ce la giochiamo alle bombe del canòn, e la cosa ci porta via dieci minuti buoni, tirandoci più di una volta sull’orlo del fallimento della missione, perché bisogna decidere chi è pari e chi dispari, quando si buttano i numeri, come si buttano, se è al meglio degli uno o dei tre, e così via. Va a finire che tocca a me entrare. Mio cugino mi darà una mano, e poi resterà di guardia, così non corriamo il rischio che qualcuno ci chiuda la finestra alle spalle, intrappolandoci.

Il varco rettangolare di fronte a me diventa improvvisamente gigantesco, una voragine, una bocca di caverna. Il sole batte sul muro, e così il nero dell’ombra all’interno è ancora più nero, un drappo di velluto che beve la luce e non lascia trapelare nulla. Mi avvicino. Dall’interno arriva aria fredda e umida. Sa di muffa, ricorda il sottoscala dei nonni, o il deposito di ratatuia dietro al ponaro della bisnonna, ma senza l’odore di puìna. Ecco, se adesso mi volto, penso, siamo ancora in tempo per lasciare stare e tornare dai nonni. Un bicchiere di latte, un panino con la straecca in tocio, e morta lì. Invece tocca andare avanti.

Mio cugino fa scaletta con le mani intrecciate. Ci appoggio il piede, fermo le mani sulla mensola in sasso della finestra, e mi isso. Devo fare in fretta, perché mio cugino non mi può tenere chissà quanto, anche se l’istinto mi dice di fermarmi a osservare cosa c’è subito oltre, prima di saltare dentro. L’oscurità mi accoglie con il tonfo ovattato delle mie suole sul pavimento. Se solo i miei genitori avessero acconsentito a mandarmi a lezioni di karate, come tanti miei compagni di classe dopo aver visto Karate Kid! E invece no, io sono un fiero esponente della Polisportiva Arcella, quindi se mi troverò davanti a un vampiro, al massimo potrò giocarci a palla guerra. Per mia fortuna da anni seguo, sempre illegalmente e di nascosto, il cartone animato Ken Shiro, e quindi conosco, almeno in linea teorica, le mosse necessarie per far saltare in aria una persona con il solo uso delle dita.

I miei occhi si abituano abbastanza in fretta alla penombra. Mi trovo in una stanza ampia e perfettamente vuota. Il pavimento è in cotto, mi si fissa nella mente l’immagine di una mattonella spezzata, forse, penso, potrei vedere se lì sotto si apre un nascondiglio. Il tonfo alle mie spalle mi leva vent’anni di vita, non grido, non mi muovo, ma sento il sangue che se ne va da dietro la fronte e il naso, e le mani mi formicolano impazzite. Niente, è mio cugino. Non ha senso litigare adesso, anzi, la sua presenza mi rincuora, se ci chiuderanno lì dentro, beh, almeno si morirà assieme.

Sappiamo, per lunga esperienza filmica, che non dobbiamo dividerci, altrimenti uno di noi due è matematicamente spacciato, quindi procediamo affiancati, e in silenzio. Già, il silenzio. L’ambiente in cui ci troviamo non è in sé spaventoso: stanze vuote, un corridoio d’ingresso stretto, una penombra quieta creata da sottili lame di luce che penetrano dalle assi sconnesse… Ma di certo c’è qualcosa che non funziona, e si tratta proprio del modo in cui il silenzio, lì dentro, pare denso e compatto, un materasso invisibile che assorbe i rumori della normalità lasciati lì fuori. È come essere in una chiesa, ma senza il riverbero della profondità. Sulle prime, comunque, ci tranquillizza, e in parte ci delude, scoprire che non siamo i primi, e che già qualcuno, forse proprio chi ha rotto la finestra, ha bazzicato quelle stanze. Hanno bruciato qualcosa nel mezzo di una stanza, fogli di giornale, forse un tentativo fallito di falò notturno. E hanno lasciato delle scritte sui muri, con gli spray, forme vaghe che non riesco a recuperare alla mente.

È voltandoci indietro per tornare alla finestra che la paura, o meglio la paura della sfida, ci riprende con forza. La scala. Era scivolata alle nostre spalle durante la prima perlustrazione, non ci avevamo fatto caso. Adesso ce la troviamo di fronte, se volessimo uscire dovremmo comunque passarle a fianco, avvicinarci pericolosamente a quei gradini… Lì sopra non è proprio buio, perché altrimenti non ci sarebbe mai passato per la mente di salire, intuiamo il corridoio che dà, probabilmente, sulle camere da letto. Se la pianta del primo piano riflette quella del pianterreno, dovrebbero esserci quattro ambienti. Sappiamo cosa c’è, in uno di quegli ambienti. La stanza con la finestra da cui la strega si è affacciata a lanciare le sue maledizioni.

Se avessi subito fatto un passo verso l’imposta aperta, verso quel rettangolo verde di rovi che dava sulla normalità abbandonata pochi minuti prima, forse anche mio cugino mi avrebbe seguito. Invece indugio un attimo di più, e lui, senza dirmi niente, inizia a salire. Tocca seguirlo, a questo punto è in ballo anche l’onore, e poi se un vampiro o una strega lo fanno fuori, capace che i nonni si mettano a crìarmi su.

Ricordo di aver pensato che nei film e nei libri il momento in cui si sale la scala è sempre carico di tensione, con la musica di sottofondo ad accompagnare ogni passo del protagonista e ogni cigolio sinistro che si leva dalle assi di legno dei gradini. E invece la nostra salita è alquanto anonima, mio cugino forse ha pressa, ma non si fa problemi, e sale i vecchi gradini a due a due, e così ci troviamo sul pianerottolo carico di ombre. A quanto vediamo, i vandali del piano di sotto non sono saliti lassù: non si vedono scritte sui muri, né sporcizia recente per terra. C’è però qualcosa d’altro che attira la nostra attenzione, nella stanza più vicina. Niente di che, se ci penso adesso, ma lì sul momento mi parve di aver scoperto un vero tesoro, come il piccolo borsello di cuoio rosso, stracolmo di vecchie monete, che i nonni tenevano nel primo cassetto sotto allo specchio in camera loro. Una pila di giornali, un mucchietto di carta ingiallita.

Faccio per chinarmi a raccoglierli, ma mio cugino, tenendosi a debita distanza, mi fa notare che con ogni probabilità lì ci sono un sacco di germi, i topi ci avranno pisciato, e se tocco quella carta posso prendermi la toxoplasmosi. Mi colpisce la precisione del nome, e la tranquilla sicurezza con cui mio cugino l’ha pronunciato, è evidente che ne sa più di me, e lascio stare: già siamo preoccupati a sufficienza dalla minaccia del tetano, sempre sbandierata da mia nonna come nostra più che probabile causa di morte. E dire che il periodico appuntamento con la puntura dell’antitetanica non passava esattamente inosservato, eppure non ho mai fatto due più due, e mi sono portato dietro per anni il timore reverenziale per il tetano, che di simpatico aveva solo il nome, così simile alle tette sempre in cima ai nostri pensieri.

Nella stanza successiva troviamo solo una sedia sfondata, e delle ombre, sulle assi del pavimento, che mostrano con chiarezza la disposizione dei mobili scomparsi. “Hanno portato via tutto”, conclude mio cugino abbastanza deluso. Resta l’eccitazione del momento, resta la consapevolezza di essere in un posto vietato, di nascosto dai nostri genitori, ma la dimensione epica in cui avevamo sperato inizia a incrinarsi inesorabilmente. È proprio vero, hanno portato via tutto. Passi per i mobili, ma anche le porte non ci sono più, sono rimasti i cardini di ferro nero, sembrano insetti fermi sugli stipiti, pronti a muoversi al nostro passaggio.

Forse è per questa delusione che decidiamo, senza dircelo, di tentare l’ultimo, estremo rilancio. Abbiamo fatto finta di non vedere l’ultima stanza a destra, è l’unica parte della casa che non abbiamo esplorato. Ora ci tocca. Per rifarmi della salita sulle scale, vado avanti io. Mi fermo un istante sulla soglia. La stanza è più buia delle altre, e non è un’impressione. Forse lì l’imposta ha retto meglio al tempo. È una stanza più piccola, quasi angusta. Doveva ospitare un solo letto, un letto singolo. Però sul pavimento non ci sono le ombre lasciate dai mobili, a quanto vedo, e subito mi viene da pensare a una stanza da sempre vuota, destinata a essere usata come prigione. Ricaccio indietro quel pensiero fastidioso ed entro. Non so se mio cugino sia con me, non lo sento alle mie spalle, e anche se ci fosse non farebbe molta differenza. Il pavimento su cui muovo il primo passo manda un cigolio. Ecco, adesso sì che fa paura. Subito noto, alla mia destra, una mole alta e scura. Sulle prime credo si tratti di un mobile, ma mi sbaglio: sono le porte della casa. Le hanno accatastate lì, addossate e inclinate alla parete.

Quindi ci sono, questa è la stanza della strega. Visto che non c’è nient’altro da osservare, fisso l’attenzione alla finestra da dove, chissà quanti anni prima, la megera si è affacciata. Ancora con l’immagine viscida della toxoplasmosi nella mente, penso che devo stare attento a non toccare nulla, lì possono esserci morbi ben più pericolosi ancora attaccati alle superfici. Con i pugni ben chiusi e le braccia lungo i fianchi avanzo di un altro passo. La finestra, come le altre della casa, non è molto diversa dalle finestre dei miei nonni. I vetri sono divisi in due quadrati, tagliati nel mezzo da una sottile asse di legno. Sono leggermente sconnessi, perché riflettono la luce alle mie spalle con angolazioni differenti.

È in questo preciso istante, mentre osservo sovrappensiero quella finestra, che accade. A distanza di anni non so ancora dire bene cosa sia stato. La risposta semplice, che nel tempo mi sono abituato a dare, è ovviamente l’immaginazione. La verità è che anche quel momento giace, assieme a qualche altro (non tanti, per carità, ma anche uno solo basterebbe), nello scaffale dei ricordi su cui è meglio non tornare troppo spesso. Come quando abbiamo visto un fuoco fatuo, in mezzo alla campagna invasa dalle lucciole, a ridosso della notte di San Pietro e San Paolo in cui si fa la barchetta con l’albume.

Mentre osservo la finestra improvvisamente metto a fuoco il riflesso opaco delle porte accatastate alle mie spalle. Hanno attirato la mia attenzione perché mi è parso per un istante che qualcosa si muovesse, e sulle prime immagino si sia trattato solo di un gioco di riflessi. Ma mentre guardo meglio l’immagine nella finestra, di nuovo dallo spazio buio tra le porte e il muro qualcosa si muove, sguscia fuori, nero e lungo come… come un braccio.

Può essere stato un gioco d’ombre, un gatto, una pantegana. Ma in quel momento fu a tutti gli effetti il braccio della strega, scuro di decomposizione, o chiuso nel lungo guanto di raso nero con cui la donna fu sepolta quando morì. L’unico pericolo reale di quel giorno fu la corsa disperata e incespicante giù per le scale e fuori dalla finestra. Ci ritrovammo ansanti e graffiati dai rovi, nella luce bianca dello spiazzo di terra battuta. I motorini continuavano a passare, il sole era dove lo avevamo lasciato, non doveva essere trascorso più di un quarto d’ora. Non ne parlammo più di tanto, mio cugino si limitò a dirmi che vedendomi correre mi era venuto dietro.

A distanza di anni, seduto di fronte al computer in questo nuovo giorno di “distanziamento sociale”, so che devo ringraziare quel braccio, qualunque cosa sia stata. La vera ragione, la vera speranza nel nostro entrare nella casa della strega era proprio la fuga. Solo col tempo ho imparato che anche nel nascondino l’aspetto più divertente non è trovarsi un buon nascondiglio e stare nascosti, ma correre come un pazzo verso la salvezza una volta che ti hanno scoperto. Correre a precipizio verso la luce e la vita, poco importa se sfuggendo pericoli immaginati, è qualcosa di importante, come il boresso tra amici o i penotti lungo la schiena dopo uno spavento. Spero con tutto il cuore che quando finirà questa lunga e dolorosa conta, potremo uscire dai nostri rifugi, e correre di nuovo, ognuno col suo passo, nel sole della campagna.

***

Riproduzione riservata © Il Mattino di Padova