La chiesa padovana ha sempre meno preti, ora tocca ai parrocchiani

PADOVA. Non può esserci una comunità cristiana senza preti, ma esistono già tanti campanili senza un parroco. La crisi delle vocazioni, cominciata trent’anni fa, oggi è un dato di fatto. Così la chiesa guarda avanti e comincia a immaginare un nuovo modo di esistere, alternativo alla vecchia formula di un prete factotum per ogni parrocchia. La soluzione è affidare le chiese ai laici: alle famiglie, a donne, a equipe miste composte da ordinati, consacrati, laici, coppie di sposi. Più in generale, là dove un parroco non potrà più essere presente saranno i parrocchiani a gestire e animare la vita della comunità. A questo tema è stata dedicata la 69a settimana nazionale di aggiornamento pastorale, intitolata proprio “Parrocchia senza preti”, organizzata dal Centro di Orientamento Pastorale, che si è chiusa ieri a Villa Immacolata, a Torreglia.
In estinzione. I numeri descrivono in modo inequivocabile il calo delle vocazioni e i suoi effetti. A livello nazionale, dal 1990 il numero di preti si è ridotto del 16%, con punte del 35% nel nord Italia. Ma i preti rimasti sono sempre più anziani: un terzo ha più di 70 anni, uno su cinque ne ha più di 80. A Padova nel 2010 c’erano 756 preti, con un’età media intorno ai 63 anni. Oggi ce ne sono 631, con un’età media di 64,1 anni. In nove anni sono spariti 125 preti, più di 13 all’anno. E se le nuove leve si contano ogni anno sulle dita di una mano (quest’anno tre), l’età media di chi resta fa davvero impressione: 146 (su 631) hanno fra 70 e 79 anni; 115 fra gli 80 e gli 89; 19 hanno più di 90 anni. E questo significa che 280 preti sui 631 della diocesi di Padova hanno oltre 70 anni.
Senza parroci. Sono 211 su 459 le parrocchie della diocesi ancora coperte in modo tradizionale, cioè esclusivo, dai parroci (e in pochi casi da altri religiosi). Le altre devono fare i conti con gli effetti della crisi delle vocazioni. Perché non essendoci abbastanza parroci, quelli in servizio devono dividersi fra più campanili. Ci sono così 30 unità pastorali che accorpano 123 parrocchie. E ci sono 125 parrocchie che hanno una conduzione condivisa con altre, nella maggior parte dei casi c’è un parroco che si divide fra due o tre comunità.
Ma il lavoro non manca. È vero che calano anche le presenze alle messe, ma il 75% degli italiani si dichiara senza mezze misure cattolico e manifesta un bisogno di sacro. Il lavoro dei preti, dunque, non sarebbe in crisi. Ma i preti non si trovano e anche il tentativo di “importare” religiosi dall’Africa e dall’America Latina non è bastato a tappare i buchi. In apparenza il fenomeno è irreversibile, ma qua e là si colgono segnali discordanti. Al sud le vocazioni crescono del 3-4%. «E comunità vivaci come quelle che possono crescere senza i preti potrebbero invertire la tendenza», ipotizza don Antonio Mastantuono, vice direttore di Orientamenti Pastorali.
Problema/opportunità. Ma se a prima vista questo sembra un brutto guaio, per la Chiesa, il tema sta prendendo tutt’altra piega. Ed è di questo che si è parlato per giorni a Torreglia. L’idea che ne è scaturita è che le comunità parrocchiali possano vivere la loro fede in modo perfino più libero e spontaneo senza un prete, in un modello che le libera dal predominio del clero, restituisce centralità e responsabilità ai battezzati e a chi ha ricevuto altri sacramenti- soprattutto il matrimonio - lasciando al prete (in transito o in missione occasionale) la funzione insostituibile dell’Eucaristia.
Il nuovo modello. «La soluzione non è un laico che si sostituisce al prete», chiarisce monsignor Domenico Sigalini, presidente del Cop, «e neppure trasformare le parrocchie in centri di servizi. Immaginiamo invece una comunità di soggetti corresponsabili e che in forza dei sacramenti ricevuti possano farsi carico di qualche compito». Per capire la portata del cambiamento bisogna immaginare una piramide rovesciata: chi prima stava alla base, ora sarà sopra. Esistono già esempi, in giro per l’Italia, come le famiglie missionarie a Km 0. Oppure ci sono unità pastorali strutturate con un responsabile laico e un presbitero incaricato. «Ma anche in Africa e in America Latina ci sono tante comunità dove il presbitero è un traghettatore, che costruisce e va altrove», aggiunge Mastantuono. La priorità resta l’annuncio del Vangelo, per l’Eucarestia ci si organizza. Ma tutto il resto è affidato alla fantasia e alla vitalità dei fedeli».
Chi e come. Il nuovo corso di fatto è già partito, perché i laici da tempo si ritagliano spazi e responsabilità sempre maggiori nelle parrocchie della diocesi di Padova. La settimana del Cop mette le famiglie al centro di una gestione ideale, essendo rappresentative, nel loro piccolo, delle dinamiche di un’intera comunità. Il ricorso a equipe, invece, non piace a tutti, perché potrebbero ricreare centri di potere e ribaltare quella piramide rovesciata che invece è l’immagine del nuovo corso.
Riproduzione riservata © Il Mattino di Padova