«La gente è disperata e chiede ascolto Ecco perché noi frati lasceremo un vuoto»

Padre Vittorio Bellè, parroco uscente e ministro dell’esorcismo «C’è chi va dallo psicologo, chi dai maghi. E chi viene da me» 

l’intervista

C’è sempre qualcuno che aspetta di parlare con padre Vittorio Bellè. E nel suo ufficio - finestra grande che affaccia sul chiostro del convento - i telefoni squillano continuamente. C’è un trasloco da organizzare. E c’è il ministro provinciale che, un po’ a sorpresa, chiama per annunciare le ultime novità: il 13 settembre la messa di saluto ai parrocchiani, il 4 ottobre l’arrivo del nuovo parroco. «Ha sentito la telefonata?», chiede padre Vittorio. «Praticamente non sono più parroco, devo solo firmare le dimissioni». Dopo 604 anni, i frati lasceranno via San Francesco, chiesa e convento. Una storia che finisce.

«Ce l’hanno detto il 26 maggio», attacca padre Vittorio. «Siamo stati sorpresi e amareggiati. È vero, siamo in pochi ormai, di giovani frati ne arrivano col contagocce, qui siamo in otto e tutti di una certa età. Io ne ho 77 e non sono il più anziano. Un taglio era inevitabile. In provincia sono rimaste tre comunità, l’infermeria non si tocca e la scelta era tra noi e Cittadella. I superiori evidentemente hanno pensato che fosse più facile chiudere Padova».

I parrocchiani ci sono rimasti male.

«Hanno formato un comitato. Pensi che hanno scritto anche al Papa. Per loro è stata una notizia scioccante, qui hanno sempre visto i frati».

Come si spiega questo grande affetto?

«Intanto c’è la bellezza del luogo. E poi la nostra disponibilità ad accogliere, ad ascoltare. Il vescovo, quando sono arrivato, mi ha chiesto di continuare la mia attività di ministro della consolazione e dell’esorcismo. Fra tragedie, disgrazie, malattie, la gente non sa più a chi rivolgersi. Qui sapevano di poter trovare una preghiera o un consiglio».

La messa del primo giovedì del mese qui a San Francesco è affollatissima.

«Due ore di liturgia con rosario e preghiera, per la guarigione e la liberazione da forme malefiche. C’è bisogno anche di questo, ci sono troppe persone che vivono nella sofferenza e nella solitudine».

E qui trovano conforto...

«Quelli razionali vanno dallo psicologo. Quelli più disperati finiscono da maghi, sciamani, stregoni, cartomanti. Qui hanno sempre trovato chi fa servizio solo per amore di dio e del prossimo».

In questi anni ha visto aumentare la disperazione?

«Costantemente. E sono preoccupato perché queste persone perdono un riferimento. Io non ho mai fatto statistiche, ma sono sicuro di aver sempre incontrato almeno quaranta persone ogni giorno».

Che origine ha questo malessere?

«La cattiveria è la spiegazione. Le famiglie sono divise, spesso per questioni di soldi. Oppure si fanno guerre tra vicini. E le malattie, fisiche e psichiche, a tutte le età, sono in aumento».

E adesso lei dove va?

«Speravo di non avere più incarichi di responsabilità, dopo tanti anni. Ho appena festeggiato i 50 di sacerdozio, volevo dormire leggero. Invece sarò rettore al santuario della Madonna del Frassino, a Peschiera del Garda».

Con gli altri frati della comunità di Padova vi perderete di vista...

«Tre di loro vanno a Cittadella, un altro viene con me. Peccato però...».

Siete tanto legati?

«L’esperienza del lokdown ci ha unito molto».

Chiusi in convento

«Abbiamo celebrato da soli, ma avendo più cura della bellezza. Abbiamo studiato e letto e pregato e fatto i lavori manuali. E io ho anche celebrato qualche funerale, una volta ho dato una benedizione sulla porta del cimitero. Un’atmosfera lunare. Io faccio footing, esco ogni mattina alle 5, ma la città così vuota non l’avevo mai vista».

Perché i giovani non scelgono più di diventare frati? C’è chi dice che siano poco generosi, eppure guardi quanti volontari...

«La generosità la pratichi liberamente e con quello che hai. Il voto di povertà è un’espropriazione della tua volontà e dei tuoi beni. E da quel momento tu non hai niente e puoi offrire solo in dipendenza da un altro».

È per questo che c’è una crisi di vocazioni?

«Quella di povertà è una scelta radicale, difficile. Poi c’è l’obbedienza, altro voto impegnativo. E c’è la castità che di questi tempi è anche più difficile».

Come si fa?

«Bisogna imparare a donarsi a tutti e non a una persona. Non dev’essere una repressione ma una sublimazione degli istinti. Servire l’altro è l’incarnazione del rapporto. Non un amore individuale ma universale».

Voi frati siete una specie in estinzione

«Pensi che quando sono entrato io, tra Veneto e Friuli - al tempo unica provincia - eravamo più di mille. A Chiampo, il mio paese, eravamo in 36 e in seminario c’erano 150 giovani frati. Poi nei primi anni di sacerdozio a Marghera avevo 1.200 bambini al catechismo, facevamo sette messe la domenica e dovevo chiedere ai genitori di non venire a quella dei ragazzi, perché in chiesa non ci stavano. E sì che quella parrocchia non era proprio piccola».

Altre abitudini o altra spiritualità?

«Ceto, magari si andava in chiesa anche per abitudine. Infatti non è la pratica che mi preoccupa ma la mentalità evangelica che oggi è venuta meno».

In mancanza di frati, come di preti, certi compiti nelle parrocchie dovranno essere affidati ai laici?

«Ed è anche giusto. I laici non sono né servi né utenti, ma protagonisti della vita delle parrocchie. Sarà un ritorno al passato, a quando non si era fatto ancora l’errore di accentrare tutto sul clero. E così magari i sacerdoti avranno di nuovo il tempo per aprire le porte delle parrocchie, per incontrare la gente e per ascoltarne i bisogni, anziché perdere le giornate dietro lavori impiegatizi». —



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