La ragazza del ’46 Menapace: Repubblica figlia delle donne

Senatrice, femminista e staffetta partigiana. A 92 anni racconta come le casalinghe mandarono via i Savoia
Di Maria Berlinguer

ROMA. «La festa della Repubblica finora non è diventata popolare perché si è limitata a un pranzo di gala al Quirinale e in altri tempi anche a una sflilata militare come se l’esercito non avesse già la sua festa il 4 novembre nè si vede perché debba averne due, quante feste dovrebbero avere allora le casalinghe?».

Lidia Menapace è una ragazza del ’46. Quello è l’anno in cui lei, appena maggiorenne e già con un passato intenso di staffetta partigiana, grazie al quale si guadagnò il rango di sottotenente, votò per la prima volta, come milioni di altre donne. Anzi per la seconda visto che il primo voto al qual poterono partecipare le donne fu per le elezioni amministrative di qualche mese prima, quando le donne risposero in massa e l’affluenza superò l’89 per cento. La stessa parcipazione ci fu per il referendum Monarchia Repubblica. Staffetta partigiana, senatrice della Repubblica, femminista militante e fondatrice del quotidiano Il Manifesto, Lidia Menapce da tempo ha una proposta per rendere popolare la festa del 2 giugno.

Di che si tratta?

«In Francia si festeggia ballando tutta la notte con la Marsigliese, a noi italiani manca una festa nazionale. Io propongo di occupare pacificamente il 2 giugno parchi, giardini e viali alberati scambiandoci, barattando o persino vendendo quanto di meglio offre la nostra tradizione culinaria nazionale e regionale. Vini compresi ovviamente. Altro che Masterchef, Il Convivio è il luogo in cui si scambiano opinioni, pettegolezzi o magari solo ricette ma può diventare anche il posto giusto per lanciare iniziative politiche, sociali o culturali e magari cominciare a parlare dei referendum costituzionali di ottobre». Per il quale, Menapace , «una partigiana vera» iscritta all’Anpi, forse è inutile sottolinearlo, si augura una valanga di No contro quella che lei definisce «deforma». Ma partiamo dal primo referendum quello del 46.

Che ricordi ha di quel periodo?

«Un sentimento di grande allegria. Ero molto contenta ma anche piena di rabbia. Mi ricordo delle litigate furibonde, anche con dei compagni per il voto delle donne. “Voteranno come gli dicono i mariti e la Chiesa”, dicevano. C’era molta ostilità. Invece le donne votarono come volevano. Anzi vinse la Repubblica con l’apporto del voto delle donne che dettero alla Repubblica un milione di voti in più degli uomini. La Repubblica è dunque “figlia nostra”, per questo dovremmo occuparci di come festeggiarla. Quella fu anche la mia prima campagna elettorale. Essendo io nata molto tempo fa, praticamente dopo la fine delle guerre puniche, tutto ciò che mi riguarda ha precedenti lunghi».

Che slogan usò per convincere gli italiani ad abbandonare la Monarchia?

«Certamente ricordo di aver fatto una campagna elettorale con toni accomondanti. La Repubblica è la forma più avanzata che conosciamo, spiegavo.

Quanto ai Savoia, oltre a ricordare il comportamento della casata con il fascismo, io che sono nata a Novara spiegavo che la Savoia è in Francia, i sovrani sono dunque francesi. In più insistevo sul fatto che noi partigiani, se avesse vinto la monarchia non ce ne saremmo restati con le mani in mano. Non credete che i partigiani deporrano le armi se vince il re».

Toni a parte evidentemente ha funzionato.

«Grazie alle donne, non dimentichiamolo noi per prime, La fine della monarchia è stata una nostra vittoria. Una delle poche cause vinte della mia vita».

In che senso?

«Beh se guardiamo alla situazione delle donne in questo Paese, al fatto che ancora hanno stipendi molto più bassi degli uomini, al fatto che nessuno riconosce ancora il doppio, triplo lavoro che le donne fanno in casa e in famiglia, beh devo riconoscere che la battaglia per l’emancipazione delle donne va ascritta a una della tante cause perse della mia vita».

Ce ne sono state molte? A 92 anni mi sembra che conservi l’entusiamo della ragazza del 46, continua a girare l’Italia come una trottola.

«Sì di battaglie ne ho perse molte ma non ho mai smarrito la voglia di continuare a impegnarmi per cambiare in meglio il nostro Paese, per dare diritti a chi non ne ha, schierandomi sempre dalla parte dei più deboli».

La tessera del pane, i bombardamenti, la solidarietà tra famiglie e le fughe in bicicletta, e i tanti episodi di eroismo collettivo e individuale, la distribuzione dei giornali clandestini, la paura dei posti di blocco dei nazifascisti. Nel suo libro “La Mia resistenza” lei racconta la graduale presa di coscienza di una giovane donna del valore politico della Resistenza e dell’antifascismo. Valori che oggi sembrano appartenere a un altro mondo. Come si può continuare ad alimentare insieme al ricordo anche ciò che tutto ciò ha rappresentato e continua a rappresentare nella nostra storia?

«Non smarrendo la bussola della Costituzione e non alimentando facile e noiosa retorica. Io non sono mai stata di Lotta continua, ero del Manifesto, ma c’è un loro slogan che mi ha sempre divertito. “A furia di essere militanti si diventa militonti”».

Lei che è una “vera partigiana”, come ha vissuto la distinzione del ministro Boschi tra i veri partigiani che voteranno sì al referendum di ottobre sulle riforme costituzionali e «quelli che sono venuti dopo» che voteranno “no”?

«Figuriamoci se alla mia età mi faccio dire dal ministro Boschi cosa devo fare, come si permette di dire che se votiamo “no” non siamo dei veri partigiani? Per non citare l’accostamento di chi vota “no” con Casapound. Vuol dire che il ministro non ci conosce, non sa chi siamo.

Le darei un consiglio: ragazza torna a studiare, ripassa. Io spero che questa riforma autoritaria, una deforma, venga sommersa da una valanga di “no”».

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