La regola di Giovanni Gajo: «Vendere prima che sia tardi»

TREVISO. «Nel mondo ci sono valanghe di soldi, capitali mostruosi a disposizione. Piuttosto che trascinare avanti la propria azienda alla meno peggio, io dico: vendi tutto». Carpe diem, è una questione di cogliere l’attimo. Superando ritrosie e resistenze che hanno molto di culturale, perché vendere e abdicare dal ruolo di “paròn” è fuori dal perimetro dei pensieri, per molti piccoli e medi imprenditori del Nordest. Giovanni Gajo compra e vende aziende di mestiere: ora che la barba è bianca, è presidente onorario della “sua” Alcedo, Sgr con 25 anni di storia alle spalle. Nel suo curriculum - lunghissimo - la partecipazione nel 1987 alla costituzione di Finanziaria Internazionale e nel 1991 di 21 Investimenti di casa Benetton.
Gajo, gli stranieri fanno shopping di aziende nella Marca.
«Un fenomeno complesso, con dentro di tutto: aziende che comprano altre aziende, e fondi che investono qui. Va fatto un discorso sull’Italia industriale e imprenditoriale, con i suoi pregi e i suoi difetti. Tra questi ultimi sicuramente c’è un sistema politico non tra i migliori, e una classe politica storicamente inadeguata. Chi viene a investire in Italia sa che trova una burocrazia asfissiante, tempi lunghi, problemi ai trasporti».
Se lo fa, ci saranno anche pregi.
«C’è gente comunque creativa, fantasiosa, che ha voglia di lavorare. Non solo nella moda e nell’abbigliamento, pensiamo alla Brembo che fa i freni per la Porsche. Gli investitori stranieri guardano all’Italia con sospetto e ammirazione al tempo stesso».
Qui a Nordest più ammirazione che sospetto? È più attrattivo perché ha meno difetti?
«Probabilmente sì, anche se è eccessivo dire che qui è il Bengodi, i tempi della “locomotiva” sono finiti ma ci sono cultura industriale e voglia di fare. La crisi ha fatto capire il valore del lavoro, c’è una riconversione che coinvolge anche i sindacati, oggi più disponibili. Ci avviciniamo a un modello tedesco, e forse a Nordovest va ancora meglio».
C’è un rovescio della medaglia? Ovvero: le aziende si mettono in vendita per problemi di ricambio generazionale, o di accesso al credito?
«Fenomeno complesso, molte aziende sono già alla terza generazione. La vostra recente indagine Top 500 ha mostrato anche quest’anno un sistema variegato, ma nella media la situazione va un po’ meglio, dai numeri si desume che i risultati di sistema sono buoni. Non c’è da fasciarsi la testa: quei pochi che vanno bene sono eccellenze a livello europeo».
C’è un tratto comune in questo shopping straniero?
«Difficile individuare delle linee guida. C’è chi ci arriva per occasione, chi ha percorsi articolati e a tratti straordinari, come Permasteelisa, esempio di multinazionale tascabile».
Cosa porta in dote una proprietà straniera?
«A prescindere se la proprietà è italiana, cinese o altro, il problema vero è che ci sia una gestione adeguata ai tempi. Vedo che in alcuni casi si verifica, in altri meno. A chi ha difficoltà a gestire la propria azienda dico: vendi tutto, in giro per il mondo ci sono capitali mostruosi».
C’è ancora resistenza culturale a farlo?
«Senz’altro, manca l’esperienza per cogliere il momento giusto. E se sbagli la tempistica, l’azienda che non va perde valore. Sarà che questo timing è il cuore del mio lavoro, noto che nell’imprenditoria media padronale del Nordest non è così percepito. Non c’è mai stata quest’esigenza, in passato».
E come ci si rende appetibili?
«Pigli l’azienda, la rimetti in ordine, tagli i rami secchi, dai un programma, lavori sui manager e sull’intenazionalizzazione: così, semplificando, diventi appetibile». (f.p.)
Riproduzione riservata © Il Mattino di Padova