«La Shoah sulla nostra pelle» I sopravvissuti raccontano
Alle 23 del 24.12 del 1943 vennero a prelevarla. Lei era una bambina, suo padre, funzionario del ministero dell’agricoltura, aveva perso il lavoro, e la sua famiglia tirava avanti gestendo una gelateria al Dazio a Padova, intestata al marito della donna di servizio, perché gli ebrei, dopo le leggi razziali del ’38, non potevano detenere proprietà. Quando il questore di Padova li avvertì che era il caso di tagliare la corda si nascosero in campagna, da conoscenti che li proteggevano, lungo il Terraglione a Vigodarzere. Ma poi qualcuno se li giocò e Sylva Sabbadini, i suoi genitori, e sua nonna finirono al campo di detenzione di Vo’. C’erano campi territoriali, in cui raccoglievano gli ebrei; di lavoro in cui li sfruttavano come schiavi per produrre con manodopera a costo zero; e quelli della morte, come Auschwitz.
Alla Villa Venier di Vo’ Vecchio venivano raccolti gli ebrei Delle zone limitrofe, in attesa di altre destinazioni. Da lì Sylva partì il 17 luglio del ’44, giungendo prima nella Risiera di San Sabbia, il 19, tappa intermedia, poi il 31 verso Auschwitz, arrivando il 3 agosto. E fu una delle tre persone che tornarono, insieme a Bruna Namais e alla madre Ester Hammer Sabbadini. Oggi Sabbadini, dal 2003 cittadina onoraria di Vigodarzere, ha 84 anni e ha ancora la forza di indignarsi quando sente in giro teorie negazioniste.
Lei in quei campi c’è stata ed è stata una delle poche che è riuscita a tornare indietro. La sua testimonianza l’ha portata ancora una volta, a Padova, in uno degli incontri organizzati dalla Provincia per il Giorno della Memoria, assieme alla mostra “Sport, sportivi e giochi olimpici nell’Europa in guerra (1936-1948)”, a Palazzo Antenore fino al 28 gennaio.
«Mio padre lavorava come capomeccanico in un zuccherificio a Ficarolo di Rovigo» è la testimonianza di Franco Levi. «Dopo l’inizio della guerra venne incarcerato due volte, e liberato perché indispensabile per il lavoro, ma il primo agosto del ’44 ci portarono via tutti. Mia madre Dina, arrestata anche se cristiana perché il suo nome fu scambiato per un cognome ebreo, venne rilasciata dopo accertamenti. Portarono mio padre, me e mia sorella nel carcere Piazza Castello a Padova. Mia madre si fece assumere dalle suore, come inserviente, per poterci vedere, e non so come fece, ma convinse le autorità a far rilasciare noi bambini, mentre mio papà lo vidi partire. Da Monfalcone ci giunse una sua cartolina, scriveva che non sapeva dove lo stessero portando, ma era verso la Germania».
La voce si rompe dalla commozione ancora irrefrenabile. Venne considerato un disperso di guerra. Ma dalle ricerche compiute, dopo 60 anni, si ritrova il suo nome fra quelli degli ebrei giunti a Auschwitz.
Marcus Babad, polacco, arrivò a Padova, come ricorda il figlio Mair, per studi, si laureò in ingegneria, trovando anche l’amore. Nel ’41 venne portato al Ferramonti di Tarsia in Calabria, altro centro di raccolta, dove divenne capocamerata, il riferimento per gli ebrei che teneva i rapporti con le cosiddette autorità. Babad aveva un buon rapporto con il maresciallo del campo Gaetano Marrari, che cercava di proteggere gli ebrei, come quando riuscì a issare la bandiera gialla del colera nel campo, facendo desistere i tedeschi dal prelevarli. Due anni fa la figlia di Marrari e il figlio di Babad si sono ritrovati, per ricordare quel tempo e i loro padri.
Un collage di testimonianze, in un incontro pubblico che si è tenuto a Padova: un contributo dei protagonisti per non dimenticare.
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