LA STORIA / Borgo Santa Lucia, nei bordelli in centro con le “signorine”

Un secolo fa in Borgo Santa Lucia: soldati, studenti del Bo e commercianti. Ma fra i clienti in via Sant’Agnese tanti vip. Gli aneddoti del “far flanella”

PADOVA. Il 20 febbraio 1958 entra in vigore la legge 75 (prima firmataria la senatrice socialista Lina Merlin) che abolisce la regolamentazione della prostituzione e, in un tornado di polemiche, cancella la vergogna di uno Stato che pretendeva la tassa di esercizio sui postriboli insieme alla percentuale sugli incassi. Questo provvedimento di civiltà sociale non valse, però, a eliminare la piaga della prostituzione: provocò, invece, l’esodo della stessa dal chiuso delle case all’aria aperta delle strade della città, con l’incrocio micidiale dello spaccio di droga.

Caserme, Bo e agricoltori. A Padova la prostituzione aveva radici profonde, era alimentata da due fuochi: l’imponente presenza di militari (la città è stata «capitale» al fronte nel primo conflitto mondiale) e quella di una grande Università. Inoltre, soprattutto di sabato, arrivavano i commercianti di bestiame e i clienti della Borsa Merci che quotava granaglie e pollame. Uomini massicci dalla faccia rossa e dalle mani spesse, in tasca, negli anni di relativo benessere, tenevano rotoli di banconote.

Dopo la mattinata d’affari eccoli a pranzo al ristorante per poi riversarsi nei casini del centro storico, un consumo festoso di cibi e di donne. La domanda quindi era altissima e l’offerta ben organizzata. In tutte le case erano esposte le tariffe e, spesso, un avviso: «Ai signori clienti è vietato molestare le signorine prima di aver pagato la marchetta». Negli anni Trenta, la diffusione dei lupanari fa da sponda alla realizzazione di un progetto di restauro ed ammodernamento della città che ne stravolge l’identità storica.

Rivoluzione urbanistica. Nel nome di una maggiore scorrevolezza del traffico e di una migliore qualità ambientale, con la regìa dell’architetto Peressutti e le ruspe della società Ape (Anonima Padovana Edilizia) si decide la distruzione di due antichi rioni del centro storico, Borgo Santa Lucia e il Ghetto, per far posto a due grandi piazze: la nuova Piazza del Borgo (piazza Spalato, ora piazza Insurrezione) di ben 120 metri per 60 e il nuovo mercato del quartiere ebraico (110 metri per 70). Fortunatamente, il progetto nel Ghetto cade nel nulla, ma il Borgo Santa Lucia viene completamente raso al suolo per costruire i palazzoni di travertino (Camera di commercio e Inps), vero e proprio inno al regime fascista.

Santa Lucia era un intrico di piccole case con cortile caratterizzate dalla presenza di un pozzo. C’erano anche palazzetti di un certo decoro: in uno avrebbe abitato l’astrologo mago Pietro d’Abano; in un altro aveva vissuto il grande pittore Andrea Mantegna; un terzo era stato la residenza di città dell’architetto Giuseppe Jappelli. Per spazzare via un’identità storica così intensa occorreva una campagna di comunicazione imponente e fu fatta. Si parlò di «case meschine e logore, abitate da persone dedite alla più laida prostituzione». L’ufficiale sanitario Alessandro Randi rincarò la dose: «Al piano terra di queste luride topaie vivono famiglie della classe più misera, nello stesso ambiente sani e malati, vecchi e bambini».

Contro le puttane un grido di guerra: «Impedire che continuino a fiaccare le reni dei nipoti di Antenore». Agli sfollati viene promesso il paradiso: sono stati loro destinati alloggi nel verde dello splendido quartiere di Città Giardino. Finiscono invece in periferia, nelle case popolari a ringhiera.

La mitologia dei casini. In Borgo Santa Lucia c’erano casini di basso rango. Il più bello di Padova era invece in via Sant’Agnese, dalla Norma. L’8 febbraio, festa della matricola, apriva le porte agli studenti universitari che potevano consumare gratis. Tra i frequentatori c’erano anche persone importanti, metti il federale o un prelato. Allora si prenotava in Piazza Garibaldi una carrozza con le ruote di gomma, perché non cigolasse sui cogoli del selciato.

Ogni due settimane, la cosiddetta quindicina, si rinnovava il piccolo harem: «E’ arrivata la ferrarese! E’ tornata la Wanda!» e ognuna aveva una sua specialità. In casino, nell’attesa, si chiacchierava o si leggeva, c’è chi passava il tempo a bighellonare a far fanéa come si diceva in gergo lupanarense. Si raccontava di uno studente, poi avvocato di grido, che aveva composto la tesi di laurea direttamente in casino. C’erano anche le inevitabili complicazioni: qualcuno si innamorava e voleva riscattare la ragazza, come è raccontato nello splendido romanzo di Dino Buzzati «Un amore».

Nel 1930 in via Boccalerie una giovane fu uccisa proprio sulla porta del postribolo: come narrano le cronache dell’epoca, le tagliarono la gola con un trincetto. Gli episodi di violenza erano comunque piuttosto rari e se c’erano il regime fascista provvedeva ad oscurarli. Lo sfruttamento della donna era totale e garantito dalla legge dello Stato. Finché arrivò la legge Merlin a chiudere i casini anche a Padova...

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