La testimonianza: «Io, una delle vite salvate a San Patrignano. Quella di Muccioli era fermezza, non violenza»

PADOVA. «Qualcuno è durato poco, qualcuno ci è ricaduto, qualcun altro è morto. Ma se mi giro indietro, vedo tantissime vite salvate». Nicola Cesaro, padovano della Madonna Pellegrina, 57 anni, oggi lavora come manutentore a San Marino. La sua è una di quelle «vite salvate» da San Patrignano.
SanPa, l’abbreviazione che spesso è utilizzata per identificarla, è la comunità per tossicodipendenti fondata nel 1978 da Vincenzo Muccioli. È anche il titolo della docu-serie di Netflix, prodotta e sviluppata da Gianluca Neri, che nel raccontare la storia di questa realtà ha dato vita in tutta Italia a un acceso dibattito. Sulle metodologie “poco ortodosse” utilizzate nella comunità, sulla figura del patron Muccioli, sulle pagine di cronaca nera che si sono intrecciate a Coriano di Rimini, dove SanPa ha sempre avuto sede.
Tra le 26 mila persone accolte a SanPa ci sono stati anche molti padovani: tra questi Nicola Cesaro, che ha vissuto gli anni più importanti della comunità: l’espansione massima, i processi per l’uccisione di Roberto Maranzano, la morte di Muccioli.
Quando e come è entrato a San Patrignano?
«Era il 1991 e avevo 28 anni. Da dieci anni facevo uso di droga. Ne ero dipendente. Padova era una piazza importante per il mondo dello spaccio. Ho interrotto la scuola al terzo anno e nell’ultimo ho pure smesso di lavorare. Ho vissuto come barbone per più di sei mesi. Ero stufo di vivere senza un tetto ma mia madre - papà era morto nel 1989 - mise come condizione che mi disintossicassi. Scelsi SanPa perché era l’unica comunità, a quel tempo, ed essere laica. E poi per la risonanza mediatica che aveva».
Ha conosciuto direttamente Vincenzo Muccioli?
«In quell’anno a SanPa c’erano 2.500 ospiti. Era impossibile avere un dialogo diretto con lui. I colloqui per entrare erano collettivi. Partecipai a uno di questi incontri nel teatro della comunità: Vincenzo, anche per la sua prestanza, mi convinse subito. Mi dissi: “Quasi quasi ci provo”. Le liste di attesa erano molto lunghe, ma entrai presto: colloquio ad agosto, ingresso il 6 novembre. Mi misero a lavorare in cantina: ho capito subito che quella era la strada».
Cos’è cambiato a SanPa?
«Dalla cantina sono passato all’area studenti: ho terminato i due anni di superiori, diplomandomi perito elettronico con 60/60. Una testata locale mi dedicò anche un articolo. Mi hanno quindi inserito nel settore elettricisti e qui ho vissuto anche tre anni da stipendiato. Nel 1999 sono uscito: potevo finalmente farmi una vita fuori».
Da sempre - e la serie di Netflix lo fa in maniera evidente - si sono messi in dubbi i metodi di Muccioli, ritenuto violento e padrone. È d’accordo?
«Vincenzo era fermo, non violento. Vincenzo era coraggioso: i miei capi mi raccontavano dei primi anni, quando non c’erano nemmeno i soldi per comprare la cena. Ma lui resisteva e trovava sempre una soluzione. È stato un pioniere».
Eppure lo stesso Muccioli non ha mai negato l’uso di catene per trattenere gli ospiti e sotto la sua direzione, tra le altre cose, si è consumato un omicidio.
«Bisogna vivere la dipendenza per capire: non sei padrone di te stesso, non hai capacità di regolarti e senza una presa di forza non ne esci. Era condizione necessaria per ritornare a vivere. Era fermezza che mi sento di condividere. E poi nessuno era prigioniero: certo, potevi stare dieci giorni chiuso a chiave, ma poi eri libero di scappare. Quanti ne sono scappati! Non era un lager. L’omicidio? Eravamo un paese e in un paese è normale che possa capitare, in tanti anni, qualche episodio violento. Vincenzo non poteva sapere cosa accadeva in ogni angolo. A SanPa c’erano tanti gruppi, e dove ci sono gruppi c’è sempre il lupo. Lì la cosa è scappata di mano. Vincenzo può avere avuto delle responsabilità nella gestione successive dell’episodio, ma di certo non tollerava modelli di gruppo in cui la regola fosse la violenza e la supremazia di qualcuno».
Era tuttavia risaputo che ci fossero settori più “caldi”?
«Sì, ma fino a un certo punto. Un esempio: la macelleria, in cui è avvenuto l’omicidio Maranzano, non era il luogo degli orrori che si vuol dipingere. C’erano realtà come l’area manutenzioni che sì, erano difficilmente penetrabili: erano delle comunità nella comunità, ma non certamente luoghi da demonizzare».
Lei era presente anche nei mesi della denuncia di Walter Delogu, guardia del corpo di Muccioli, che incastrò il patron di SanPa con un audio registrato di nascosto, e poi dei processi a Muccioli: che idea si è fatto?
«Io non giustifico “il baffo” - così chiamavano Vincenzo - ma quello è stato senza dubbio un tradimento. Vincenzo non lo meritava. E ritorno a dire: senza la fermezza e la durezza che aveva, mica potevi pensare di trattare persone inaffidabili, violente e spesso vicine al degrado come potevano essere i tossici dell’epoca ».
Ricorda il giorno in cui è morto, il 19 settembre 1995?
«Sì, impossibile dimenticarlo. Fu un duro colpo, ma ci avevano preparati».
Quando è uscito dalla comunità?
«Era il 1999. Avevo un lavoro e sentivo l’esigenza di vivere senza dover seguire le regole che, necessariamente, si devono seguire in una comunità. Sono rimasto in zona, a Montescudo. Ero diventato elettricista e lo sono ancora».
Se non fosse passato per SanPa, oggi dove sarebbe?
«Penso che avrei trovato un’alternativa. Volevo cambiare, ma con SanPa ho trovato la via migliore. Però mi volto indietro e sì, vedo tante vite salvate. SanPa e Vincenzo ne hanno salvate davvero molte». —
© RIPRODUZIONE RISERVATA
Riproduzione riservata © Il Mattino di Padova