La valle di padri e figli

Andrea Segre racconta l’integrazione silenziosa e delicata, come la neve
Di Marco Contino
foto Piergiorgio Pirrone - LaPresse.06 09 2013 Lido di Venezia.spettacolo.70esima mostra d'arte cinematografica di Venezia .Photocall del film La prima neve .nella foto: Giuseppe Battiston, Jean-Cristophe Folly, Anita Caprioli, Matteo Marchel, Andrea Segre..photo Piergiorgio Pirrone - LaPresse.06 09 2013 Venezia Lido .70th Venice film festival .La prima neve photocall.in the photo: Giuseppe Battiston, Jean-Cristophe Folly, Anita Caprioli, Matteo Marchel, Andrea Segre
foto Piergiorgio Pirrone - LaPresse.06 09 2013 Lido di Venezia.spettacolo.70esima mostra d'arte cinematografica di Venezia .Photocall del film La prima neve .nella foto: Giuseppe Battiston, Jean-Cristophe Folly, Anita Caprioli, Matteo Marchel, Andrea Segre..photo Piergiorgio Pirrone - LaPresse.06 09 2013 Venezia Lido .70th Venice film festival .La prima neve photocall.in the photo: Giuseppe Battiston, Jean-Cristophe Folly, Anita Caprioli, Matteo Marchel, Andrea Segre

di Marco Contino

Finalmente, dopo tanti mesi di riserbo e di attesa, possiamo dire che “La prima neve” di Andrea Segre è un film bello e intenso. Nell’incontro tra Dani, profugo del Togo, e Michele, un bambino che vive in una valle di montagna che gli ha portato via il padre, si consuma una storia di assenze e di essenze. Prima di tutto l’assenza di un sentimento - quello che dovrebbe sgorgare naturalmente dal divenire padre - e fisica - della persona che non c’è più e che fino a qualche minuto prima ti sfiorava il naso rassicurandoti sul futuro. Le cose che hanno lo stesso odore dovrebbero stare insieme, come il legno e il miele, il padre e una figlia: ma Dani non sa più che odore ha.

La metafora non è casuale perché “La prima neve” è un film sensoriale che colpisce lo spettatore non solo con la vista dei boschi, delle nebbie che si addensano sulla valle, delle foglie che si ammantano di un colore indefinibile prima dell’inverno. Ma, soprattutto, con l’olfatto: gli umori degli alberi, la fragranza della resina sui tronchi, l’umidità del muschio, il profumo affumicato delle case dove i ceppi bruciano nelle stufe e c’è sempre il caffè sul fuoco. Ma anche i suoni, quello sordo di un albero abbattuto che perpetua la tradizione o quello del legno intagliato da Dani. La difficoltà di essere padre non è un sentimento facile da descrivere. Andrea Segre lo restituisce per immagini. Forse è come una casa nel bosco aperta alle intemperie prima che qualcuno ci metta una porta per non fare disperdere il calore di un’emozione che non tutti e non sempre sono capaci di trattenere o di imprigionare. Ritorna, quasi in un movimento circolare, il concetto dell’assenza (la casa senza un tetto, la porta senza una maniglia, la famiglia senza un padre o una madre). Forse anche la mancanza di una prospettiva tra le montagne della Valle dei Mocheni, un po’ trentine e un po’ tedesche, perché l’identità - altro tema centrale del cinema di Segre - è difficile da trovare. Un altrove lontano e sospeso come le esistenze dei protagonisti che vorrebbero tutti fuggire da qualcosa. Dani, dalla vita stessa che lo ha privato di una moglie e di una madre. Michele, da un sentiero di montagna dove ha trovato la morte il padre. Ma anche zio Fabio e mamma Elisa: il primo sogna il Madagascar all’orizzonte, la seconda vorrebbe poter scappare ma sa di essere incastrata per sempre lì, tra il pub dove si canta il karaoke e un vicino di casa che incarna tutto lo squallore di un esistenza franata per sempre. Davanti a loro una natura che nelle sue stagioni si perpetua sempre uguale a se stessa, quasi insensibile alle miserie dell’uomo, salvo regalargli una speranza davanti alla bellezza incontaminata di una distesa di neve, in cui il pallido sole che annuncia l’inverno rischiara, forse, la vita di un padre e di un figlio.

Nell’abbraccio tra due persone vissute a distanza si consuma la consapevolezza che una casa si costruisce un’asse alla volta e che il vuoto non è sempre incolmabile. Segre sposta l’asticella del suo cinema verso l’alto, con un film rigoroso ed elegante nella forma. e con un tema più universale del precedente. Senza perdere lo sguardo che indugia sulle realtà come il documentario gli ha insegnato, con qualche azzardo registico (l’evocativa sequenza onirica nel bosco) che, allo stesso tempo, taglia il cordone ombelicale che lo legava al linguaggio documentaristico, pur rimanendo fedele alla sua linea contemplativa che disseziona le emozioni e esplora gli ambienti. E, alla fine, “La prima neve” (che sarà distribuito nelle sale da Parthenos a metà ottobre) è come la legna che scalda tre volte: la prima quando la tagli, la seconda quanto la carichi in spalla e la terza quando la bruci.

Il film, applaudito per dieci minuti dal pubblico, è stato viso proprio il giorno del trentasettesimo compleanno del regista.

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