Lo sfogo trattenuto di Biasion diventato “ostaggio” del clan

Freno a mano tirato e meno disponibilità ai ricordi. O, forse, solo risposte più stringate e ridotte ai minimi termini, a conferma dello stato di paura e di soggezione al clan ’ndranghetista che, diffuso a macchia d’olio tra le province di Padova, Vicenza, Venezia e Treviso, ha fatto razzia di imprese mettendo a punto un sistema di “lavaggio” del danaro tramite società cartiere. Ha parlato per oltre tre ore anche ieri pomeriggio, davanti al tribunale di Padova (il processo è stato diviso in due filoni, uno padovano e uno veneziano e ieri ci sono state le udienze in entrambi i tribunali), l’immobiliarista-costruttore Adriano Biasion, 55enne di Piove di Sacco ancora agli arresti domiciliari, coimputato e vittima nell’inchiesta che ha scoperchiato il ventre malato di un’economia nordestina tutt’altro che immune alla criminalità di stampo mafioso. Ma forse ieri – almeno era l’impressione generale – è stata la paura a rendere Biasion più trattenuto rispetto alla precedente udienza di mercoledì scorso quando, tra emozioni e groppo in gola, si è lasciato andare a sfoghi commossi. Al punto da non nascondere né le lacrime né il sentimento di angoscia temendo il peggio per la propria famiglia. Ieri, pungolato dalle domande del pm della Dda venziana Paola Tonini, è arrivata un’altra raffica di conferme da parte di Biasion, nonostante gli occhi puntati su di lui dai coimputati Sergio Bolognino, il boss con quartier generale a Tezze sul Brenta e un ruolo di peso nell’articolazione veneto-emiliana del clan Grande Aracri (clan della ’ndrangheta), e dal picchiatore del gruppo malavitoso Antonio Genesio Mangone, tutti e due collegati in videoconferenza e accusati di associazione a delinquere di stampo mafioso ed estorsione (il primo dal carcere di Nuoro, il secondo da quello di Civitavecchia). Biasion ha ribadito: le società attraverso le quali lavorava (Adriano Biason srl, Biasion group e Progresso srl) producevano anche le false fatture per il gruppo. Ancora: era stato lui, Biasion, a presentare Sergio Bolognino (titolare di un’impresa di costruzioni) al collega Leonardo Lovo di San Giorgio delle Pertiche, nei guai perché indebitato con il calabrese Giuseppe Di Rosa che si affidava ai modi non troppo cortesi di Mangone per riscuotere il suo credito. «Erano compaesani, Lovo si sfogò con Sergio che rispose: fissiamo un appuntamento e sistemiamo tutto» ha ricordato in aula. Ma il “giro” era quello. «Sparlavano l’uno dell’altro» ha spiegato in aula Biasion, «Nel senso che l’uno, Bolognino, diceva a me dell’altro, Mangone: “È un bravo ragazzo... ma non ha scrupoli, ti conviene starci e non metterti contro”. In realtà penso fosse un gioco tra loro, un modo per intimorirmi». Già perché Biasion, che pure aveva ricevuto prestiti da Bolognino, era stato costretto a entrare nel mondo delle false fatture e a “saldare “ i debiti anche altrimenti. Un esempio? Prestando (si fa per dire) a Mangone la sua Porsche Cayenne, ancora intestata alla Biasion Group e di cui continuava a pagare le rate del leasing. «Un giorno i carabinieri di Vigonovo mi convocarono. Mangone era stato fermato al volante della mia Porsche nera: un’auto simile, mi dissero i militari, era ricercata per una rapina. Diedi una dichiarazione a Mangone per usarla». E a lui aveva pure ceduto i suoi crediti. Insomma, Biasion era ostaggio del clan.
Di nuovo in aula il 9 settembre per continuare il processo agli otto imputati accusati di associazione a delinquere di stampo mafioso ed estorsione: oltre a Bolognino e Mangone, i calabresi Francesco Agostino, Antonio Carvelli, Stefano Marzano, il trevigiano Antonio Gnesotto di Villorba, Luca Zanetti ed Emanuel Levorato di Vigonza. Per riciclaggio e false fatturazioni sarà competente il tribunale di Venezia al quale sono stati tarsmessi gli atti per quanto riguarda altri sei imputati. —
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