«Lo Stato ci dipinge come violenti, falso Il Tanko era innocuo Difendiamo la storia»

Flavio Contin: «Pena lieve a Schettino, a me 4 anni e mezzo, l’Italia va a rotoli. Non andrò in galera, ma se anche fosse non mi fa paura» 

L’intervisTa

«Lo stesso Stato che condanna con pochi anni uno Schettino arriva a condannare noi con una pena sproporzionata: è un’Italia che va sempre più a rotoli. Non so davvero dove finiremo». Flavio Contin è appena stato condannato a 4 anni e 6 mesi di reclusione, oltre a 20 mila euro di multa. Ex artigiano di 76 anni di Casale di Scodosia, Contin è uno dei venetisti che ha ideato e realizzato il cosiddetto Tanko 2.0, la ruspa blindata scovata nel 2014 in un capannone di Casale. Doveva essere il mezzo con cui l’Alleanza, un gruppo di indipendentisti veneti, avrebbe raggiunto Venezia per un “Serenissimi bis”. Proprio come nel 1997, quando il primo Tanko raggiunse piazza San Marco in un blitz clamoroso: nel gruppo dei Serenissimi, guarda caso, c’era lo stesso Contin.

Contin, scusi la banalità ma la domanda è d’obbligo: come giudica questa nuova condanna?

«Era una sentenza già scritta, non serve che stiamo qui a ragionarci su. Il giudice sapeva già che doveva condannarci, e questo indipendentemente dal lavoro fatto dai nostri avvocati, a partire dal mio legale Alessio Morosin (ex Lega, padre di Indipendenza Veneta e leader del Partito dei Veneti, ndr) che ha smontato ogni accusa».

E perché la sentenza era scontata?

«Perché lo Stato vuole soffocare ogni manovra di autonomia e federalismo. Vogliono toglierci dignità, vogliono farci sentire piccoli, vogliono sminuirci: quando un uomo viene messo in queste condizioni, si spegne. Ed è quello che fanno da sempre con noi. Eppure non capiscono che così affossano una nazione: la Germania non è grande perché i tedeschi sono meglio degli italiani, ma perché dopo la guerra si è votata al federalismo».

L’iter giudiziario scattato nel 2014 ha prima confermato che l’Alleanza non era un gruppo terroristico, e poi che il Tanko 2.0 non era un’arma da guerra. Però lei, insieme ad altri sei, è stato condannato perché la ruspa montava due cannoncini considerati pericolosi, atti ad offendere. Non concorda?

«Ma va. Erano così inoffensivi che i periti dello Stato hanno dovuto inventarsi un meccanismo per farli sparare. Cioè, lo hanno realizzati loro appositamente per renderli offensivi. Ci rendiamo conto della farsa?».

La perizia che lei contesta ha comunque confermato che quei cannoncini erano capaci di infrangere un vetro blindato. Per quale motivo li avete realizzati?

«Faceva parte di una liturgia. La liturgia della guerra, diciamo. Dovevamo essere credibili e dovevamo dimostrarci agguerriti. Ma sia chiaro: non volevamo far male a nessuno. Non siamo mica come i russi che piazzano bombe nei posti affollati».

Ma se non vi avessero scoperto, sareste davvero arrivati a Venezia con il secondo Tanko?

«E chi lo sa? Immagino di sì, comunque. Ma non volevamo arrivare nuovamente sotto il campanile di San Marco. Puntavamo a Riva degli Schiavoni: dovevamo abbattere il monumento a Vittorio Emanuele II».

A proposito di Tanko, dove si trova ora? E il Marcantonio Bragadin, quello con cui avete assaltato Venezia nel 1997?

«Sono entrambi custoditi in un deposito a Peschiera, sotto sequestro. Il primo Tanko lo avevamo comprato legittimamente in un’asta organizzata dal Tribunale di Venezia. Lo tenevo io a casa, a Casale di Scodosia. Me lo hanno portato via in occasione dell’arresto del 2014, in maniera illegittima. Ma ce li riprenderemo, finito tutto li riporteremo a casa».

Contin, non c’è due senza tre?

«Ma no, figuriamoci. Ogni stagione ha modi e confini diversi di azione e iniziative come quella del 1997 e del 2014 non sono più praticabili. Anche se un risultato, comunque, lo abbiamo portato a casa, e cioè far vedere che noi veneti possiamo far valere le nostre idee in modo eclatante, ma senza usare la violenza. Lo Stato avrebbe preferito che ci fossimo macchiati di atti violenti, che avessimo agito a mo’ di brigatisti: ma noi non percorriamo questa strada. E allo Stato dà molto fastidio, davvero molto fastidio. Per questo si inventano un processo per dipingerci violenti e condannarci agli occhi dell’opinione pubblica. Ma i veneti però sono altro: non combattono per una ideologia, ma per la loro storia».

Adesso confida nel ricorso in Appello?

«Non andrò in galera per l’età, o almeno credo e spero, ma se anche fosse non avrei paura. Ci sono già stato, 23 anni fa, e in ben tre carceri. E fu davvero un paradosso: lottavamo per la libertà, e ci ripagarono togliendocela. Non lo faranno di nuovo». —



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