Lo studioso allergico alla banalità che dopo la lezione offriva lo spritz

Lanaro, il ricordo dell'allievo-giornalista: Filippo Tosatto

PADOVA. La vecchia aula A del Liviano, il sorriso tra i baffetti, l’incipit della lezione: «Nell'età dell'imperialismo l'omiletica civile si fa vulgata di un riformismo autoritario... ». Sguardi smarriti, studenti che spulciano il manuale nel tentativo (ahinoi, vano) di pescare il jolly. Un profeta del passato, Silvio Lanaro, mai ostaggio di dogmi né cultore del facile anticonformismo. Un maestro vero, che ha inoculato in generazioni di giovani la passione della storia - un virus inguaribile, sì - e l'ha fatto senza concedere scorciatoie ma impegnando gli allievi (i seguaci, verrebbe da dire) in un percorso faticoso, a tratti frustrante, il cui avvio consisteva nella traumatica rimozione delle certezze ereditate dagli studi precedenti. Allergico alla banalità - «Chi le ha detto che il fascismo fu una dittatura conservatrice? È forse un testimone oculare?», fulminò il malcapitato che scrive, ingenuo al punto da sollevare un’obiezione - cresciuto in un ambiente storiografico a forte impronta marxista, Lanaro simpatizzò sempre per la sinistra libertaria e non confuse mai sapere e credo politico. Al centro della sua indagine curiosa, i fenomeni di lungo periodo dell’Italia tra Otto e Novecento: colonialismo e industrialismo, cultura nazionalista e protezionismo economico, élite borghese e nascita delle classi dirigenti.

Sciorinando le imprese dei beniamini - «L’intuizione visionaria di Vincenzo Stefano Breda», «Il paternalismo futuribile di Alessandro Rossi da Schio» - il professore malcelava l’ammirazione scientifica verso i pionieri di un capitalismo capace di farsi largo tra pauperismo cattolico, agrari assenteisti e socialismo pasticcione. Né trascurava personalità in apparenza minori e sconosciute ai più: matematici di provincia e liberi cultori di antropologia, anarco-sindacalisti fautori del “blocco dei produttori” e preti rurali alfieri del “Paese reale”; quasi un etologo alle prese con i coleotteri, li incasellava in un vasto disegno (misconosciuto dall’accademia tradizionale eppure cruciale) riallacciando i fili delle microstorie venete in una visione mai angusta. Fino a contagiarci, a trasmetterci l’ostilità verso ogni visione manichea e la convinzione che la revisione permanente (non il revisionismo volgare) sia la via maestra della ricerca.

Docente talentuoso, narcisista nello sfoggiare vocaboli desueti evitando come la peste quelli ordinari, esigeva di più dagli studenti che più assiduamente frequentavano i suoi corsi. In fase d’esame non era di manica larga; lo irritava chi replicava tout court le sue espressioni verbali nel tentativo di ingraziarselo ma coglieva al volo l’interesse genuino e spesso lo premiava, magari con uno spritz amicale. «Ci conosciamo da trent’anni, smettila con questo insopportabile lei», «Non ci riesco, professore», «Ufff». L’ultimo incontro, mesi fa. Ti siamo debitori, Silvio. Non ti dimenticheremo.

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