L’OPINIONE / Una metropoli per pensare in grande

Il dibattito sull’area metropolitana del Veneto secondo l’architetto e opinionista Bepi Contin
Pierobon -GM- Prato della Valle Pierobon -GM- Prato della Valle
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PADOVA. «Venexiani gran signori, padovani gran dotòri, trevisani pan e tripa, vicentini magna gati, veronesi tuti mati, de Rovigo co bao e pipe non m’intrigo e Belùn…non xè proprio de nessun». Filastrocca secolare diventata d’attualità in questi giorni nei quali il Veneto è più che mai chiamato davvero a fare il Veneto, quello che abbiamo imparato a conoscere in questi ultimi cinquant’anni: una regione che bada al sodo e innova, comunque. In prima fila sul fronte della razionalizzazione della spesa pubblica, dei costi della politica, perché coi schei (di tutti) non si scherza e dunque (aggiornando) primum tagliare deinde philosophari. Punto. Fosse pure come atto simbolico, come esempio. Questo agitarsi della politica locale, della provincia, pone più di un interrogativo al cittadino pagatore poiché del tutto non si comprendono tante vesti strappate e tanti piatti rotti; lo scandalizzarsi per una operazione di ridisegno e riformulazione delle competenze amministrative che poco hanno a che fare con una presunta perdita di “identità”, di appartenenza; forse si sono confusi (ad arte?) i due comparti (amministrativo e storico/culturale) con l’intento di coinvolgerci in un agitar di forconi che pare riguardare di più carriere politiche, politici “perdenti posto”, che concreti interessi dei cittadini contribuenti. Di fatto, per chi paga, se l’obiettivo dell’operazione è il risparmio, è il taglio dei costi della politica, ben venga la Città metropolitana, o come diavolo possa chiamarsi, o quant’altro possa ridurre le spese perché la misura è colma.

La motivazione prima di queste resistenze al nuovo è forse rintracciabile nel Decreto legge del 6 luglio 2012, n.95 - Città metropolitane e soppressione delle province (Art. 18 DL 95/2012 convertito con modificazioni l.135/2012): «La titolarità delle cariche di consigliere metropolitano, sindaco metropolitano e vicesindaco è a titolo esclusivamente onorifico e non comporta la spettanza di alcuna forma di remunerazione, indennità di funzione o gettoni di presenza». Tradotto: con il rimanere delle Province si percepiscono gli euro dell’indennità di carica, si ha lo staff, l’addetto stampa e chi cura l’immagine mentre con la Città metropolitana, comunque vada, fossi pure il sindaco del capoluogo metropolitano, non si becca un euro. Per poter vivere forse si dovrebbe tornare a fare quel che si faceva prima e a guadagnare quello che si guadagnava prima. Piccole cose, ma questa classe politica che ci ha portato al baratro è su questi registri che si muove, diversamente non si spiega l’assenza dal dibattito di temi propri della politica amministrativa, degli scenari possibili e del confronto sulle scelte. Come cittadini paganti dobbiamo dire la nostra e formarci una nostra opinione individuando alcuni passaggi che possano orientarci. Chiediamoci innanzitutto: la Città metropolitana si occupa di qualche cosa di nuovo, di così devastante, letale per la democrazia, da dover ricorrere alle barricate per difendere le province? No. Per Nulla. La Città metropolitana ha le stesse competenze della ex provincia. Lo si può leggere nel Decreto Spending Review (5 luglio 2012 - Art. 18 DL 95/2012: «Alla città metropolitana sono attribuite le stesse funzioni fondamentali: 1) pianificazione territoriale generale e delle reti infrastrutturali; 2) strutturazione di sistemi coordinati di gestione dei servizi pubblici, nonché organizzazione dei servizi pubblici di interesse generale di ambito metropolitano; 3) mobilità e viabilità; 4) promozione e coordinamento dello sviluppo economico e sociale».

E allora qual è la vera sostanza? Più di altre la parolina magica è “infrastrutture”: strade, ponti, treni autobus tram, aeroporti, porti, hub della logistica; la loro pianificazione in quanto scelte di “Area vasta”, che vanno oltre l’estensione di comuni e province. Quello che spesso i politici evocano per darsi un “respiro” lungimirante: “Pensare in grande”. Di fatto nella Città metropolitana i padovani resteranno tali - mica siamo nel Seicento ai tempi della guerra dei Trent’anni nel corso dei quali si seguiva il destino del sovrano - e i veneziani pure perché l’idem sentire non si ridisegna per decreto, anche se ci potrebbero essere più affinità di altre: ad esempio può essere scontato che i Gran dotòri padovani vadano a braccetto coi Gran signori veneziani - piuttosto che i più popolani “magna gàti” de Vicènsa o i trevisani da “pan e tripe”; lasciando fermo che “con Rovigo non m’intrigo” (sbagliando perché Rovigo è una splendida realtà culturale da conoscere, studiare, apprezzare). Si presenta che Padova non possa che andare con Venezia. È una condizione storicamente naturale che via via e sempre più appare scelta obbligata. Anche se auspicabile potrebbe essere quella di abolire tutte, ma tutte, le province, anziché accorparle come ora, e fare del Veneto un’unica Regione metropolitana. Ma anche qui un passo alla volta perché quello del Veneto metropolitano per adesso appare ancora un traguardo. Più tecnicamente, per l’ingegneria del territorio e per la politica amministrativa, l’infrastruttura strategica è la futura Nuova Tangenziale di Venezia: il primo tratto c’è già e già ha variato sostanzialmente gli equilibri e ha un preciso nome: Passante di Mestre, e un secondo tratto è la prevista “Romea Commerciale”; così completando e chiudendo un bacino territoriale lagunare in cui c’è tutto il bendiddio che si vuole e serve per competere (storia cultura e turismo a livelli stratosferici, aeroporti, porti, hub commerciale a nastro), così lasciando tagliata fuori Padova a fare da “quartiere”(di Mestre). Padova sa di questo pericolo e gli strateghi di Palazzo Moroni seguono la faccenda con apprensione ben consci del momento: se perdono l’occasione Città metropolitana, Padova perderà di colpo il ruolo di possibile “Capitale del Veneto”, progetto/sogno tanto accarezzato da generazioni di politici padovani (e non è difficile immaginare il vicesindaco Ivo Rossi nei panni di Chaplin, alias Adenoid Hynkel, a cui fa pouffh! il pallone “mappamondo”).

Bando agli scherzi: qui Padova si gioca il futuro, o entra nel progetto metropolitano o ne resta fuori perché an do vai se 1) l’aereoporto non ce l’hai, 2) il porto non ce l’hai e 3) la metro non ce l’hai? Ecco, il più che opportuno “pensare in grande” vuol dire mettersi insieme con le proprie risorse nel restare noi/se stessi, restando padovani, veneziani, trevigiani…. Qualcuno perderà il “lavoro” della politica? Un assessore provinciale (Bonetto) in predicato, così commentava la vicenda da meritare la citazione: «Io, il mio lavoro l’ho conservato; la poltrona in politica la puoi anche perdere». No, non seguiremo coi forconi le rivendicazioni di quanti temono di perdere il “lavoro” politico perché fare politica non è un “lavoro”, è un qualche cosa di diverso, è un darsi responsabilmente alla collettività, un dare e non per avere, un rendersi utili e non ritenersi necessari, necessari a vita; e il Lucio Quinzio Cincinnato (console romano, 520 ac) lo sapeva bene nel lasciare e riprendere l’aratro: ce lo hanno insegnato fin dalla seconda elementare. Anche perché Cincinnato era della Tribù Romilia, da Este. Veneto anche lui, quindi, che ai veneti di oggi avrebbe potuto suggerire qualcosa di sempre attuale. E forse sarebbe servito. A tutti.

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