Mafia: è morto Totò Riina, il capo di Cosa nostra

Era in coma dopo due interventi chirurgici, aveva 87 anni. Nonostante la detenzione al 41 bis da 24 anni, era ancora il capo di Cosa nostra
Totò Riina
Totò Riina

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E' morto alle 3.37 nel reparto detenuti dell'ospedale di Parma il boss Totò Riina. Ieri aveva compiuto 87 anni. Operato due volte nelle scorse settimane, dopo l'ultimo intervento era entrato in coma. Riina, per gli inquirenti, nonostante la detenzione al 41 bis da 24 anni, era ancora il capo di Cosa nostra.

Riina era malato da anni, ma negli ultimi tempi le sue condizioni erano peggiorate tanto da indurre i legali a chiedere un differimento di pena per motivi di salute. Istanza che il tribunale di Sorveglianza di Bologna ha respinto a luglio. Ieri, quando ormai era chiaro che le sue condizioni erano disperate, il ministro della Giustizia ha concesso ai familiari un incontro straordinario col boss.

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Riina stava scontando 26 condanne all'ergastolo per decine di omicidi e stragi tra le quali quella di viale Lazio, gli attentati del '92 in cui persero la vita Falcone e Borsellino e quelli del '93, nel Continente. Sua la scelta di lanciare un'offensiva armata contro lo Stato nei primi anni '90. Mai avuto un cenno di pentimento, irredimibile fino alla fine, solo tre anni fa, dal carcere parlando con un co-detenuto, si vantava dell'omicidio di Falcone e continuava a minacciare di morte i magistrati.

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Totò Riina in carcere

 A febbraio scorso, parlando con la moglie in carcere diceva: "sono sempre Totò Riina, farei anche 3.000 anni di carcere". L'ultimo processo a suo carico, ancora in corso, era quello sulla cosiddetta trattativa Stato-mafia, in cui è imputato di minaccia a Corpo politico dello Stato. Ieri, nel giorno del suo 87esimo compleanno, il figlio Giuseppe Salvatore, che ha scontato una pena di 8 anni per mafia, ha pubblicato un post di auguri su FB per il padre.

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«È morto Salvatore Riina il boia di via dei Georgofili del 27 Maggio 1993. In via dei Georgofili ha messo in atto 'La strage del 41 bis' come la definì il Procuratore Gabriele Chelazzi: 5 morti, 48 feriti sono stati il tentativo di Salvatore Riina di far abolire il 41 bis. Abbiamo speso 25 anni della nostra vita e non ce l'ha fatta Salvatore Riina a fare abolire sulla carta bollata il carcere duro ed è morto a 41 bis, questo è quanto dovevamo ai nostri morti». Così Giovanna Maggiani Chelli, dell'Associazione tra i familiari delle vittime della strage di via dei Georgofili, commenta la notizia della morte del capo di Cosa Nostra. «Tuttavia fin da quel 1993 e fino ad oggi - aggiunge - i passaggi da 41 bis a carcere normale, hanno denotato quanta forza nell'ambito dello Stato sia stata spesa per assecondare i desiderata della mafia, ma questo è un capitolo ancora tutto aperto. Stiamo aspettando un processo per capire chi aveva in quel 1993 promesso a Riina ,in cambio di morti, l'abolizione del 41 bis».

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- «Massimo riserbo. Al momento nessun commento». Luca Cianferoni, uno degli avvocati storici di Totò Riina, il boss di cosa nostra morto la notte scorsa, vuole aspettare prima di fare dichiarazioni. Nel giugno scorso, durante una delle udienze del processo d'appello per la strage del treno 904 a Firenze, Cianferoni era tornato a chiedere «la detenzione domiciliare ospedaliera» per Riina, le cui condizioni già allora, disse, si erano «aggravate». «Ha diritto a morire dignitosamente - aggiunse l'avvocato -: non abbiamo mai chiesto che torni a casa, ma che sia assistito in ospedale». Nel mese di luglio il tribunale di sorveglianza di Bologna aveva respinto la richiesta.

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VITA DI RIINA
L'ascesa corleonese
Nato a Corleone, cuore antico e profondo della Sicilia, in una famiglia di contadini il 16 novembre 1930, si legò presto al capomafia Luciano Liggio e a 19 anni fu condannato ad una pena a 12 anni, scontata parzialmente nel carcere dell’Ucciardone, per aver ucciso in una rissa un suo coetaneo. Da fedelissimo di Liggio prese parte alla sanguinosa faida contro gli uomini di Michele Navarra. Nel 1969 avviò la sua lunga latitanza che diede inizio alla sua ascesa, sancita ancora nel sangue, il 10 dicembre, con la «strage di Viale Lazio», che doveva punire il boss Michele Cavataio. Sempre più influente, sostituì spesso Liggio nel «triumvirato» di cui faceva parte assieme ai boss Stefano Bontate e Gaetano Badalamenti. Risale a quegli anni l’asse con il loro ’compaesanò Vito Ciancimino, il sindaco mafioso di Palermo, con cui mise le mani nella politica e nell’amministrazione degli affari comunali. Nel 1971 fu esecutore materiale dell’omicidio del procuratore Pietro Scaglione e, nello stesso anno, partecipò ai sequestri a scopo di estorsione ordinati da Liggio, attraverso il quale stabilì rapporti solidi con ’Ndrangheta di Tripodo e i camorristi napoletani affiliati a Cosa nostra dei fratelli Nuvoletta. Dal ’74 reggente della cosca di Corleone, sempre più strategica negli assetti di Cosa nostra, scatenò la seconda guerra di mafia che vide dal maggio 1981 l’uccisione per mano dei boss a lui fedeli, di oltre 200 mafiosi della fazione Bontate-Inzerillo-Badalamenti, mentre molti altri rimasero vittime della cosiddetta lupara bianca. Un vero massacro fino a quando si insediò nel 1982 una nuova «Commissione» di stretta osservanza corleonese, composta da capimandamento fedeli a Riina e da lui guidata.

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La strategia politica
Principale referente politico di Riina inizialmente fu Vito Ciancimino, il quale nel 1976 instaurò un rapporto solido con Salvo Lima. Seguì una serie di omicidi politici: il 9 marzo 1979 Michele Reina, segretario provinciale della Democrazia cristiana; il 6 gennaio 1980 fu ucciso il presidente della Regione delle carte in regola Piersanti Mattarella; il 30 aprile 1982 il leader del Pci siciliano Pio La Torre.

Schiaffo al padrino
Un duro colpo il potere di Riina lo subì il 30 gennaio 1992 quando la Cassazione - nonostante i tentativi di cambiarne le sorti - confermò gli ergastoli del Maxiprocesso e sancì l’attendibilità delle dichiarazioni rese dal pentito Tommaso Buscetta: uno schiaffo al mito dell’impunità di Cosa nostra. Il 12 marzo 1992 Lima venne ucciso: si era alla vigilia delle elezioni politiche e, alcuni mesi dopo, la stessa sorte toccò a Ignazio Salvo. A maggio l’attacco frontale allo Stato. La strage di Capaci nel quale fu ucciso Giovanni Falcone. Cinquantasette giorni dopo toccò a Paolo Borsellino, in via D’Amelio. Nel ’93 le stragi del Continente. Una «catena del tritolo» oggetto di indagini anche da parte della Procura di Firenze, su cui si è fatta maggiore chiarezza dopo depistaggi e silenzi.

La cattura
In questo periodo sarebbe iniziata la presunta trattativa, al centro di un processo il cui primo grado è alle fasi conclusive. Cruciale il ruolo di esponenti dello Stato e Vito Ciancimino. Riina rispose alla richiesta di un accordo con il famoso Papello, finalizzato a ottenere la revisione del maxiprocesso, ad ammorbidire le condizioni dei detenuti, cancellazione della legge sui pentiti. Fu arrestato il 15 gennaio del 1993 dalla squadra speciale dei Ros guidata dal Capitano Ultimo, davanti alla sua villa, in via Bernini. Mentre restava libero Bernardo Provenzano, il ’ragionierè di Cosa nostra, preso solo l’11 aprile 2006, dopo 43 anni di latitanza.

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Il grande depistaggio
Un periodo oscuro e torbido di contatti obliqui tra pezzi di Stato e della criminalità organizzata rintracciati a cavallo delle stragi. Ed è stato necessario un quarto di secolo per diradare parte delle nebbie sulla verità delle stragi, perchè Cosa nostra ha agito per compartimenti stagni. Nessuno dei primi collaboratori di giustizia, faceva parte del mandamento di Brancaccio. Nel 2008 però ecco Gaspare Spatuzza, poi il pentimento di Fabio Tranchina e per ultimo quello di Cosimo D’Amato. Alle loro rivelazioni si sono aggiunti riscontri formidabili.

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