Mario Carraro lascia la guida del gruppo ai figli Enrico e Tomaso

PADOVA. Il tempo di aprire il libro dei ricordi è arrivato. Mario Carraro, come al solito, lo fa a modo suo, ovvero guardando avanti. Nel giorno in cui l’assemblea dei soci della «sua» Carraro nomina alla presidenza il primo figlio Enrico e come vice il secondogenito, Tomaso, in Mario sembra non esserci nostalgia. Sicuramente «non ci sono rimpianti» ma un po’ di emozione sì. La solennità del momento quasi lo impone: in 51 anni alla guida del gruppo padovano, Mario Carraro ha portato un’azienda nata progettando e realizzando la prima seminatrice in linea a diventare un gruppo internazionale leader nei sistemi per la trasmissione di potenza con sedi produttive in Italia, India, Argentina, Cina, Germania, Polonia e Stati Uniti. «Sto insistendo con Enrico e Tomaso affinché il progetto Carraro 2.0 sia ancora più radicale. Per noi e per il Paese la chiave è essere all’avanguardia nella tecnologia e nelle intelligenze».
Presidente, in che contesto matura questo avvicendamento al vertice?
«Il passaggio era previsto già qualche tempo fa, poi con l’esplosione della crisi lo abbiamo rimandato. Non è stato facile, ma ora il gruppo è tornato vicino al miliardo di fatturato e ha una base solida per costruire un progetto con contenuti economici più ricchi».
Nel modo in cui avete affrontato la crisi c’è una “ricetta” per il Nordest?
«Ci troviamo al cospetto di una crisi d’epoca non congiunturale. Parlavo della ricerca dell’avanguardia tecnlogica e delle intelligenze non a caso: è questo il cambiamento che spero riesca al Nordest. Dobbiamo pensare ai giovani non più come agli operai di domani ma all’intelligenza futura».
E tutto ciò non avviene?
«L’Italia e il Nordest hanno le qualità per reagire, ma molto dipende dalla velocità di reazione. Bisogna fare presto e guardare bene ai prossimi anni per i prossimi decenni».
Con quali obiettivi?
«Se non arriviamo a tassi di crescita del Pil nazionale intorno al 2,5 per cento non risolviamo i problemi sociali che stanno emergendo».
È un appello alla politica?
«Le istituzioni in genere e le associazioni di categoria devono capire quale sarà il futuro e delineare la crescita del Paese».
Difficile in Italia.
«Chi è chiamato a questo ruolo-guida, la politica in primis, a livello locale deve conquistare maggiore autonomia dai progetti nazionali. Anche a livello regionale, non basta pensare alle autostrade. Bisogna guardare più lontano».
Rimpiange i tempi del movimento dei sindaci?
«La spinta di quegli anni e gli obiettivi sono ancora attualissimi. Il federalismo è una cosa seria. Non c’è, in generale, una questione settentrionale: il Veneto ha necessità diverse dal Piemonte».
Dove e come il Nordest non ha sputo leggere il futuro?
«Mentre qui si faceva la corsa a delocalizzare le produzioni a Timisoara, i tedeschi hanno saputo costruire rapporti commerciali con Romania, Polonia, Ungheria e Cechia. E ora stanno occupando spazi che potevano essere nostri».
Non esiste anche un problema di modello d’impresa?
«Oggi ci si vergogna quasi a dire che piccolo è bello, ma con alta tecnologia, vocazione internazionale e presidiando nicchie di mercato è ancora possibile essere competitivi».
Il limite non sta anche nel capitalismo familiare?
«No se alla famiglia si aggiungono le competenze manageriali. Ai miei figli ho detto che, sul sentiero della crescita, si può anche arrivare a perdere la maggioranza, ma la famiglia è un elemento di continuità importante. Però l’impresa, non deve diventare il salotto di famiglia».
Si parla di metodo Carraro: è la sintesi di tutto questo?
«Non esiste alcun metodo, se non la spinta alla condivisione e alla discussione aperta».
Anche nelle difficoltà?
«Sì, ma va detto che spesso quando ho preso decisioni difficili non me le hanno mai attribuite. Era sempre colpa di qualche altro manager».
In chiusura, si apre l’era Squinzi in Confindustria.
«Si può parlare di rinnovamento a fronte di una squadra composta da nove vicepresidenti? Confindustria è una fabbrica di poltrone. Ho mandato un sms a un esponente della giunta che ha votato: mi ha risposto che la squadra gli fa schifo. Queste cose andrebbero dette pubblicamente».
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