Monsignor Franceschi, testimone di fede nella sofferenza

di Lèon Bertoletti
Siamo nani, insegnava Bernardo alla scuola di Chartres, sulle spalle di giganti. Il toscanaccio don Pippo era davvero un gigante. Filippo Franceschi arrivò vescovo a Padova nel marzo 1982, trent’anni fa.
Spiace che l’anniversario sia caduto nella dimenticanza e trascorso inosservato, in città e in diocesi. Avrebbe potuto ricordare, con il valore delle cose preziose nella Chiesa che cammina educandoci al memoriale oltre la memoria, lo straordinario racconto pasquale di un episcopato breve ma denso, spezzato dal male il 30 dicembre 1988.
Nella primavera di quell’anno monsignor Franceschi si manifestò apostolo della sofferenza, innamorato della croce. Scalando il Calvario, chiese l’unzione degli infermi dentro la sua cattedrale, di fronte ai suoi preti, di giovedì santo, nella cornice unica della messa crismale.
«È stata per me una grande grazia ricevere il sacramento dal mio presbiterio» appuntò pochi giorni dopo, lunedì dell’angelo, «La grazia di Dio me lo ha fatto ricevere da molti, da voi che siete stati e siete con me, mi conoscete, da voi che mi volete bene e mi perdonate; da voi ho ricevuto un sacramento della pietà di Dio. Cari ministri della misericordia di Dio per me, grazie».
Quel rito fu un evento, religioso e laico; uno dei tanti che rendono giustizia alla grandezza e alla solidità del cattolicesimo padovano, alla correttezza morale e all’umile spirito di sacrificio di quanti hanno contribuito a vivificarlo, a una fede che ha saputo esistere e resistere a debolezze e infedeltà, a un sentirsi comunità cristiana che - nell’esame di coscienza imposto da scandali, vergogne, pessimi esempi - rafforza motivazioni e appartenenza.
La settimana santa di monsignor Franceschi trasmise parole commoventi. Completano espressioni profonde, recapitate periodicamente ai sacerdoti attraverso Lettera diocesana, che rivelano l’amorosa sollecitudine per un clero al quale il vescovo non tralasciava di raccomandare le virtù dell’obbedienza filiale e del celibato casto.Altri scritti lo testimoniano vicino a giovani, famiglie, ammalati, anziani, consacrati, sportivi.
Da pastore, non da funzionario, Filippo Franceschi rappresentò senza dubbio una svolta rispetto all’autoritarismo paternalistico di Girolamo Bortignon, che il giudizio storico lascia sospeso tra grandi meriti ecclesiastici e abbagli clamorosi (la persecuzione a padre Pio), atti eroici di Resistenza e crociate ideologiche (i fatti di Pozzonovo ricostruiti accuratamente da Alessandro Naccarato).
Rimpianto come esemplare figura di guida, don Pippo lasciò il timone alla lunga navigazione wojtyliana di Antonio Mattiazzo, a sua volta in discontinuità di modi e di tempi nel pellegrinaggio verso una Pasqua di redenzione da errori e tradimenti ecclesiastici. Comunque la stagione del vescovo Franceschi non è stata una parentesi ma un dono, ancora presente nel cuore di molti.
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