«No all’omologazione» La nuova Querini riparte da Scarpa

di Enrico Tantucci
Botta e risposta sulla Querini di Carlo Scarpa. L’architetto ticinese Mario Botta non è solo un grande progettista contemporaneo ma - da allievo di Scarpa, con cui si laureò a Venezia - è di fatto il continuatore (insieme a Valeriano Pastor, che lo ha preceduto nella stessa opera) dell’intervento che il suo maestro di allora realizzò appunto, iniziando, per fasi successive, nel 1963, alla Fondazione Querini Stampalia di Venezia, con una delle sue realizzazioni più alte. Intervenendo, con il suo linguaggio, anch’esso a più riprese, sulla nuova ala della Querini, Botta ha tra l’altro spostato l’accesso principale su Campo Santa Maria Formosa, “musealizzando” in qualche modo quello scarpiano sul campiello attiguo, con lo splendido ponte che è anche un omaggio a Carpaccio. E Botta, con Mario Gemin parlerà domani alle 18 alla Querini - nel quadro degli incontri di approfondimento promossi dalla Fondazione sull’attualità dell’opera di Scarpa - proprio di quel progetto del grande architetto veneziano e della sua prosecuzione attuale, nel contesto veneziano.
Architetto Botta, Carlo Scarpa ha trovato solo in questi ultimi anni quella consacrazione assoluta che gli era stata in buona parte negata in vita.
«È così, solo nei suoi ultimi anni aveva iniziato ad avere i riconoscimenti dovuti a questo grandissimo “artigiano-architetto”, che definirei come l’ultimo degli architetti rinascimentali per i suoi rapporti con la classicità. Direi che proprio con la globalizzazione in atto, che ha portato all’omologazione dell’architettura nel mondo - con gli edifici che ormai sembrano rendering - Scarpa docet, con la sua attenzione ai particolari, ai materiali anche più umili, nobilitati attraverso la sua architettura».
Come si è confrontato con l’intervento di Scarpa alla Querini Stampalia nella sua prosecuzione. Si è posto il problema di una continuità di linguaggio architettonico?
«Il primo confronto è stato con un paradosso, con cui anche Scarpa - e poi Pastor - ha dovuto misurarsi: quello di dover intervenire sulla Querini senza un progetto unitario, ma intervenendo di volta in volta in base alla disponibilità degli spazi e delle risorse economiche. Un modo, in fondo, molto veneziano di costruire, basato su una stratificazione continua, che non mi dispiace e al quale mi sono adattato sulla base del mio linguaggio».
Negli anni in cui lei iniziaza a lavorare con Scarpa, Venezia ha voluto/dovuto rinunciare a tre grandi progetti, come l’Ospedale di Le Cobusier, il Palazzo dei Congressi di Louis Kahn e la Palazzina sul Canal Grande di Frank Lloyd Wright. Tre grandi occasioni perdute per la città?
«Non direi così, perché Venezia, evidentemente, in quel momento storico non era ancora pronta per le trasformazioni che avrebbero indotto quei tre grandi progetti, non erano pronte le Soprintendenze. Oggi è diverso, perché c’è moltissima architettura contemporanea negli ultimi anni a Venezia, ed è giusto così, perché su questa città si è sempre intervenuti nei secoli, senza paura, per stratificazioni successive».
C’è anche però chi si scandalizza per queste trasformazioni e che ha ad esempio criticato la trasformazione della seicentesca Punta della Dogana da parte di Tadao Ando.
«Personalmente sino totalmente d’accordo con l’intervento compiuto da Ando sulla Punta della Dogana e aggiungo che proprio lavorare su un edificio di quel tipo ha cambiato, in questo caso, la sua progettazione architettonica. No, Venezia non deve avere paura dei cambiamenti provocati dai nuovi interventi di architettura contemporanea. Quello che mi fa paura per questa città e che rischia davvero di stravolgerla è il suo asservimento totale a un turismo becero che sta cancellando la sua identità. questo è il vero rischio: che la città diventi una sorta di parco-giochi, mentre servono luoghi come la Querini, sempre piena di giovani e al servizio della città con la sua precisa identità storica».
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