Nonno e nipote collezionisti i Franchetti alla Ca’ d’Oro

Giorgio primo a cavallo fra ’800 e ’900, Giorgio secondo negli anni ’60
Di Sileno Salvagnini

di Sileno Salvagnini

VENEZIA

Non è facile trovare una mostra che assommi tre elementi cardine: chiarezza assoluta dei curatori, luogo espositivo di grande fascino, percorso che accompagni il visitatore nelle ragioni più profonde delle scelte espositive. È quanto accade in “Da Giorgio Franchetti a Giorgio Franchetti. Collezionismi alla Ca’ d’Oro” (manifestazione collaterale della Biennale di Venezia, fino al 24 novembre, a cura di Claudia Cremonini e Flavio Fergonzi, catalogo Tecnostampa, voluta dalla Soprintendenza Speciale per il Patrimonio storico, artistico ed etnoantropologico e per il Polo Museale della Città di Venezia e dei comuni della Gronda Lagunare).

Non esiste forse turista che non abbia o visitato personalmente la celebre Ca’ d'Oro, splendido edificio veneziano voluto dai nobili Contarini nel Quattrocento. Pochi sanno invece che esso fu acquistato e restaurato nella seconda metà dell’ 800 da Giorgio Franchetti senior per farne la propria dimora e ospitarvi la grande collezione, donata insieme al palazzo, prima della sua morte, allo Stato italiano

Due oggetti - spiegano i due curatori - anticipano il contenuto della mostra come, nei film, accade spesso con la cosiddetta mise en abyme, in cui un rapido racconto iniziale illustra l’intero percorso della storia: un Taxiphote, vale a dire un visore stereoscopico per diapositive o per fotografie con doppio oculare di inizio secolo scorso, amato dai due collezionisti omonimi (nonno e nipote), che si trovava nell’ultima dimora romana del nipote, da un lato; ed un dittico di Tano Festa del 1968, Il collezionista in visita al museo, che riproduce a sinistra un particolare del celebre Ritratto di Giovanni Arnolfini di Van Eyck, ora alla National Gallery di Londra, e, a destra, Giorgio Franchetti jr., creando, osservano i curatori, con lo sguardo di Festa che “mette in relazione, ma anche in reciproca tensione lo sguardo del collezionista e quello, inquietante del ritratto che fissa a sua volta chi lo guarda con una molteplicità di piani che entrano in questo gioco che non è lontana dalla tridimensionalità ricercata nel Taxiphote…”., una sorta di cortocircuito che rimanda alle costruzioni fotografiche del grande Helmut Newton (rafforzato, ritornando a Festa, dall’analogia che si coglie fra il verde dello sfondo e quello dei mantelli di un piccolo quadro di van Eyck, l’unico in collezione pubblica italiana, collocato per la mostra proprio alla sua sinistra).

Aiutano a capire meglio la sorta di vita parallela dei due Franchetti, all’inizio della mostra, alcuni splendidi ritratti di famiglia realizzati da Franz von Lenbach - il più importante ritrattista della Monaco di Baviera alla fine dell'800, città peraltro da dove proveniva la moglie di Giorgio senior, Marion von Hornstein. Si entra poi nel vivo della collezione antica partendo dalla celebre cappella col San Sebastiano di Mantegna, e proseguendo poi con opere acquistate da numerosi antiquari europei fra 8 e 900 con un gusto che ricorda molto l’eterogeneità di stimoli di D'Annunzio, personaggio che peraltro “contribuirà ad orientarne in un. primo tempo, secondo il gusto estetizzante dell'epoca, alcune delle scelte operative…” (Cremonini).

Il nipote non fu da meno. Visse nella Roma a cavallo di anni Cinquanta e Sessanta, quella di Pasolini e Flaiano, di film celebri come Fantasmi a Roma e La dolce vita. E di grandi gallerie e galleristi come la Tartaruga, l’Attico, Plinio de Martiiis, Gian Enzo Sperone, Fabio Sargentini. Con lo stesso occhio acuto del nonno, Giorgio jr. comprò la miglior arte del tempo. Da americani come Franz Kline e Mark Rothko, che ben presto vendette per acquistare le tele più significative dei più promettenti italiani contemporanei (“Franchetti credette in un nuovo Rinascimento per l'arte italiana degli anni Sessanta: vendette le tele americane per assicurarsi i capolavori di quella stagione”, Fergonzi). Romani, ma non solo. Possiamo così ammirare La creazione dell'uomo (1964), esposto alla Biennale del 1964, dove Tano Festa, superato il momento monocromo di ispirazione che ricordava da vicino Mark Rothko, riprende suggestioni figurative delle avanguardie storiche. O due grandi décollages di Mimmo Rotella, Lacerazioni verticali e Sua Maestà la Regina, entrambi dei primissimi anni Sessanta, fra le prime opere in cui l'artista calabrese ( poi romano e milanese d’adozione) evidenzia la novità di questa tecnica, colta perfettamente da Franchetti jr. E ancora, Futurismo rivisitato a colori (1965) in cui Mario Schifano utilizza una celebre foto del gruppo marinettiano scomponendola e trattandola con tecniche pittoriche molteplici. E ancora, per concludere, opere di primissima scelta, fra gli altri, di Giacomo Balla, Giulio Turcato, Alighiero Boetti, Franco Angeli, Piero Manzoni, Pino Pascali.

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