Ognuno ha il suo mostro: il racconto di Andrea Zancanaro

Victor Peppard era il genere di persona che passa inosservata in ogni situazione.
Cinquant’anni, non alto né basso, capelli lunghi e castani spesso disordinati, dita lunghe e sottili e l’aria trasognata di chi conduce un’esistenza sospesa.
Nessuno faceva caso a lui e sembrava che la natura gli avesse donato il potere di mimetizzarsi con l’ambiente circostante come un camaleonte dai modi gentili che tutti ignoravano.
Gestiva un negozio di animali in una strada anonima, ordinaria. Ogni mattina faceva colazione con una tazza di caffè americano e due fette di pane tostato, scendeva le scale del suo appartamento, situato al piano sopra il negozio, e alzava la saracinesca.
Entrato nell’atrio, compiva una serie di rituali sempre identici. Era come se ogni giorno andasse in onda la stessa scena: depositava le chiavi sul bancone, accendeva le luci, controllava che tutti gli animali fossero nelle loro gabbiette, usciva a fumare una sigaretta, rientrava a controllare che tutti gli animali fossero nelle loro gabbiette, dava acqua alle piante e ricontrollava che tutti gli animali fossero nelle loro gabbiette. Questa serie di operazioni occupava generalmente una quarantina di minuti, do-podiché era pronto per aprire l’attività.
Quell’esistenza anonima poteva sembrare tranquilla e confortevole se contemplata dall’esterno, ma il guscio era molto diverso da ciò che si nascondeva nell’animo del signor Peppard, che custodiva un dramma inaccessibile, privato, protetto.
Sebbene la sua routine fosse cristallizzata da almeno vent’anni, non passava giorno in cui l’uomo non fosse tormentato da dubbi spaventosi, incertezze logoranti e pensieri ricorrenti che schizzavano fuori da quel grumo di ossessioni.
Durante la giornata si occupava di servire i clienti del negozio, il resto del tempo lo trascorreva a pensare. Ragionava su pensieri di una fondamentale inesistenza e inconsistenza, arrovellandosi su idee che non avevano alcuna attinenza con la realtà, e a fine giornata era sempre stanco.
Il controllare meticolosamente gli animali tre volte ogni mattina non era l’unica fisima del nego-ziante, che nel corso della giornata si ritrovava più volte a versare il mangime per i pesci in modo che scendesse nell’acqua perfettamente simmetrico o a gironzolare per il negozio buio prima di chiuderlo, come in cerca di qualcosa da sistemare a ogni costo.
Queste azioni illogiche e regolari erano la triste manifestazione del disagio esistenziale a cui era incatenato, per quanto gli pareva di ricordare, da sempre.
Quella di essere una persona orribile era un’idea del tutto infondata che germogliava nella sua mente con ciclica regolarità: da molti anni si sorprendeva a domandarsi se visitasse troppo di rado la sua povera madre e se lei si affliggesse per il fatto che a cinquant’anni non si era ancora sposato, se non fosse abbastanza gentile con i clienti, se trattasse con superficialità gli animali. Si interrogava su tutto
e più ragionava, più alzava il volume di una voce che si creava in risposta e che lo rassicurava dicen-dogli che non era affatto così.
Poco dopo, però, quella voce sfumava nel silenzio e l’ansia riprendeva il sopravvento.
Ciò che era singolare di Victor, tuttavia, era la totale lucidità con cui guardava al problema: era del tutto cosciente di essere affetto da una qualche forma di disturbo comportamentale, ma era anche una persona molto intelligente e, in fin dei conti, riusciva a non far trasparire troppo quel tratto così im-portante del suo carattere e a rapportarsi con gli altri in modo sempre educato. Il tempo gli aveva insegnato ad abitare nella sua gabbia di ossessioni e nessuno avrebbe sospettato che nel profondo di quell’anima apparentemente calma si nascondesse un campo di battaglia sempre aperto.
La consapevolezza di soffrire a causa di motivi a cui la maggior parte del genere umano non presta neppure attenzione lo aveva portato a rivolgersi al dottor Strauss, un analista che gestiva uno studio poco distante dal negozio.
Recarsi lì gli dava un senso di sollievo inimmaginabile.
Solo una volta si era rivolto a uno psichiatra ed era stata una pessima idea. Prima di entrare si era trovato in compagnia di una donna che continuava a ripetere parole sconnesse a un koala di peluche e aveva provato un senso di inadeguatezza totale: non era quello il suo posto.
Lui non era malato a quel modo.
La sala d’attesa del dottor Strauss, invece, era un luogo accogliente in cui a volte incontrava una vedova che non riusciva a elaborare il lutto o uno studente che soffriva di attacchi di panico.
Le sedute con il terapeuta erano rilassanti e piacevoli, anche se il signor Peppard si era abituato da tempo a mentire all’analista e a omettere gli eventi e i dettagli sui quali la terapia avrebbe dovuto insistere di più.
«Quante volte ha controllato gli animali oggi?» chiedeva il dottor Strauss.
«Una» mentiva.
«Quanto spesso avverte questa sensazione di inadeguatezza, di essere causa delle sofferenze al-trui?»
«Raramente, ma quando succede è terribile» rispondeva l’altro per sentirsi dare dei consigli senza ammettere ad alta voce la gravità della situazione.
Uscito dallo studio dell’analista, per quanto avesse omesso o inventato, si sentiva meglio, più leg-gero, e certe volte si concedeva una passeggiata nel parco prima di ripiombare nell’abisso delle sue paranoie.
Tra le ossessioni più ricorrenti, quella che lo faceva soffrire maggiormente era la paura di vendere i suoi piccoli a qualcuno che non ne avesse cura, ma non potendo sottoporre ogni acquirente a un rigido colloquio si vedeva costretto, di tanto in tanto, a pedinare fuori dal negozio alcuni clienti per verificare come gestivano i loro nuovi animali. Spesso questi controlli si tramutavano in veri e propri
giri della città e, visto che trovare il tempo per sorvegliare tutti era impossibile, il signor Peppard si trovava a sprofondare nelle paludi del senso di colpa nei confronti di quelle povere creature a cui temeva di non aveva fornito tutte le necessarie attenzioni.
Questi ansiogeni giri del quartiere erano uno degli argomenti di cui il dottor Strauss non sapeva nulla.
La mattina di quel venerdì di ottobre, Victor era entrato come ogni giorno nel negozio e aveva svolto tre volte il consueto giro di controllo, mentre la sua instancabile mente si preparava a intessere il solito abito di pensieri nevrotici.
Nulla lasciava presagire che quella giornata avesse in serbo per lui qualcosa di davvero particolare; i gatti erano sempre sulla parte a destra dell’entrata, il rumore delle ruote dei roditori aleggiava nella stanza e le persone cominciavano a camminare sul marciapiede oltre la vetrina per recarsi al lavoro.
Si sistemò dietro il bancone, pronto a vivere la sua routine, aspettando che una necessità immotivata lo costringesse a un’azione inutile.
Rimase tutto il giorno in quello stato d’attesa, interrotto dall’arrivo di alcuni signori che comprarono del mangime per cani, un collare e una cuccia, di una coppia che doveva decidere se regalare al figlio un pappagallo o un canarino e di un anziano interessato ai pesci rossi.
Come ogni giorno aspettava la sera diluendo le ore in controlli del sistema elettrico, per evitare che il negozio esplodesse e i clienti si ferissero, e telefonate ai genitori, al fratello e ai nipoti per paura che si sentissero trascurati.
Stava dando ascolto a una voce che ripeteva hai venduto quel canarino a una coppia di violenti, gli faranno del male, quando il campanello appeso alla porta suonò e una donna comparve sulla soglia.
Dal primo istante in cui lei rivolse lo sguardo verso il bancone, ogni cosa si fermò.
La donna rimase immobile mentre il signor Peppard la contemplava come si fa con un dipinto poco prima della chiusura del museo, quando vorresti rimanere davanti alla bellezza per sempre, ma sai che dovrai lasciarla presto.
Indossava un abito bianco e vaporoso. Tutto in lei sembrava leggero: i capelli biondi e mossi, il modo di rimanere ferma, lo sguardo che vagava curioso nel labirinto di gabbie.
La sconosciuta mosse alcuni passi, si chinò verso un pappagallo variopinto e disse: «Esistono molti tipi di gabbie». Subito dopo aver pronunciato quella frase enigmatica, si voltò verso il signor Peppard sfoderando un sorriso radioso e alzando le spalle con aria infantile.
Era ancora turbato da quella comparsa inaspettata, quando lei gli rivolse la parola con un’enfasi inspiegabile: «Piacere, mi chiamo Holly Streep».
«Piacere» balbettò Victor. «Cosa desidera?»
La donna abbassò lo sguardo e rispose: «A dire il vero non sono qui per un mio desiderio, anche se mi piacciono gli animali».
Sorpreso, le chiese cosa volesse dire e lei spiegò: «Mi hanno consigliato di comperare un animale domestico, però non ho idea di come scegliere» fece una pausa e riprese colma di entusiasmo, «lei potrebbe aiutarmi! Lo farà?»
«Certo, è il mio lavoro, signorina» rispose, sempre più coinvolto in quella situazione inaspettata che gli aveva fatto dimenticare di controllare per la terza volta la temperatura della vasca dei pesci.
«Lei è veramente un uomo gentile, sa? Allora, da dove vogliamo cominciare? Oh» si arrestò, «non mi ha ancora detto il suo nome!»
«Victor Peppard» disse, avvicinandosi per accompagnare la cliente tra le gabbie, le vasche e le cucce. Stava per indicarle che a destra poteva trovare i cuccioli di gatto quando lei si abbassò sulle ginocchia per allungare il braccio verso un furetto bianco che riposava in una gabbia sul pavimento.
«Ciao, come sei bello» gli disse. «Sì, sì, certo che credo nell’amore a prima vista, solo non mi è mai capitato di incontrare qualcuno e innamorarmi di lui al primo sguardo. Però sei davvero carino» gli prese una zampetta, «sono sicura che il dottor Strauss sarebbe contento se scegliessi te».
A sentire quel nome, il signor Peppard sussultò. Avrebbe voluto chiedere alla donna quale fosse il suo rapporto con il dottor Strauss, ma gli pareva indiscreto e ferire i suoi sentimenti lo avrebbe fatto sentire orribile. Trascorse qualche istante in cui si rimproverò per aver solo immaginato di chiedere un’informazione così personale; il pensiero di poter importunare una donna di tale grazia lo mise a disagio.
Holly si alzò e, gli occhi accesi di luce, disse: «Il dottor Strauss è il mio analista. Mi ha consigliato di acquistare un animale domestico per distrarmi».
A Victor sembrò che la sconosciuta gli avesse letto nella mente. Replicò: «E distrarsi da cosa, si-gnorina, se non sono indiscreto?». Subito dopo si rimproverò perché quella domanda era senza dubbio indiscreta.
«Dal mio poltergeist» rispose tranquillamente.
«Ch-che cosa?»
«Oh, non si agiti. Le persone si sconvolgono sempre quando menziono Gipsy» disse, ancheggiando verso il bancone.
«Gipsy?»
«Sì, gli ho dato un nome: non credo sia possibile convivere quotidianamente con qualcosa di ani-mato senza dargli un nome».
«E io non penso che si possa convivere con qualcosa di fastidioso e dargli un nome che ispira affetto».
«Sbaglia: noi tutti ci affezioniamo a ciò che ci dà fastidio e che ci crea problemi, se non fosse così la maggior parte delle persone sarebbe felice. Quanto crede sia semplice sbattere fuori di casa un marito prepotente, licenziarsi da un lavoro che non dà soddisfazioni o lasciar andare un pensiero che ci incatena? Se fosse facile le persone sarebbero felici, ripeto».
Spiazzato da quella risposta acuta e velata di pessimismo, Victor si ritrovò a ragionare sulle voci che lo tormentavano quotidianamente. Possibile che in una qualche forma si fosse affezionato a loro? Possibile che quello che intercorreva tra lui e le sue manie non fosse semplicemente un sentimento di avversione, ma un inspiegabile rapporto di amore, oltre che di odio?
Con poche semplici frasi, quella donna dalla bellezza disarmante lo stava mettendo di fronte a una possibilità che non aveva mai attraversato la sua mente affollata.
«Ho scelto: quel furetto sarà il mio nuovo amico».
«È sicura di non voler vedere il resto degli animali, signorina Holly?»
La donna annuì e, mentre lui si avvicinava per sollevare la gabbia, si sedette su una sedia, estrasse un piccolo quaderno e iniziò a scrivere.
Sempre più perplesso, Victor si fermò a guardarla e ignorò la voce che cercava di obbligarlo ad andare a controllare i contatori elettrici. Non la interruppe, la guardò scrivere finché lei alzò il capo: «La gente scrive spesso il proprio diario prima di andare a dormire. Non ha senso! Gli eventi vanno scritti appena succedono: cosa ne saprò a mezzanotte di come mi sentivo in questo momento?»
«Il tempo aiuta a rielaborare, signorina Holly, spesso è più facile sapere come ci si sentiva in un determinato istante quando si può guardare il quadro complessivo da lontano. Le emozioni sono ve-stiti di specchi: incendi quando ci travolgono, ma nell’economia di una vita, o anche solo di una giornata, non sono che scintille».
«Signor Peppard, lei ha detto una frase meravigliosa. Posso annotarla nel mio diario? Oh, e vuole sapere cosa ho scritto poco fa?»
«Lei non teme di mostrare i suoi sentimenti».
«Le persone che hanno sentimenti non dovrebbero aver paura di mostrarli».
«Legga pure» la invitò.
La donna si sistemò sulla sedia e si preparò a leggere come una bambina chiamata dalla maestra: «Oggi ho seguito il consiglio del dottor Strauss, ho scelto un animale carino e che mi terrà sempre compagnia. Lo chiamerò Victor, come il padrone del negozio. Da quando sono qui non ho ancora visto Gipsy, mi piace molto stare in questo posto».
Il signor Peppard ascoltò quel suono puro leggere le frasi con enfasi, poi si stupì nel sentire la propria voce affermare: «Lei è molto bella».
«Lo so» rispose, e nei suoi occhi brillò una strana luce che fece crollare quell’aura di innocenza, «ma a volte vorrei essere brutta» aggiunse.
«Perché dice questo, signorina Holly?»
Abbassò il capo e buttò indietro i capelli, come se quello che stava per dire la imbarazzasse un po’.
«C’è una signora che cammina sempre lungo il fiume. Mi dà l’idea di essere una persona felice, ma lei è molto brutta» spiegò.
«E questo cosa c’entra?» si interessò Victor, sempre più coinvolto nella discussione. «Lei non è felice?»
«Io? Ci sono momenti in cui sono felice, ma essere bella rende le cose così prevedibili! Vede?» ridacchiò con una punta di amarezza, ma un tono gentile. «Anche lei si sta innamorando di me».
«Come può pensare una cosa simile?» balbettò l’uomo, allontanandosi e appoggiandosi alla gabbia del furetto che aveva posto sul bancone.
«Non si offenda, signor Peppard, lei mi piace molto. È davvero l’uomo più affascinante che io abbia incontrato negli ultimi due anni».
Turbato, Victor iniziò a giocherellare con una scatola di veleno per topi che trovò sul bancone. A forza di tormentarla strappò l’adesivo che la sigillava e si rese conto di averla aperta. La richiuse nel modo più accurato possibile e, deglutendo, spostò lo sguardo verso la donna.
«Così mi lusinga, signorina Holly» disse, pur consapevole che non era appropriato farsi alcun tipo di illusione: nessuna donna con lo sguardo così vivo e le labbra così rosse avrebbe potuto desiderare un uomo orribile come lui.
Holly riprese la parola: «Se si sta chiedendo chi la superava fino a due anni fa, la risposta è il mio ex marito, ovviamente».
«E come si chiama?». Victor si rendeva conto che quella domanda era indiscreta e del tutto super-flua, ma sentiva che dare un nome all’uomo che aveva condiviso la vita con quella donna lo avrebbe fatto stare meglio. Il motivo? Gli era del tutto ignoto. Sapeva solo che desiderava conoscere quel nome.
«Non mi chiede perché il matrimonio è finito?» si meravigliò lei.
«No, vorrei sapere come si chiama».
«Si chiama Sonny Finch» disse in modo asciutto. «Comunque, anche se non le interessa, il matri-monio è finito per colpa del poltergeist. È sempre colpa sua. Tutte le cose brutte mi succedono per colpa sua. Dovrei detestarlo!» affermò con l’aria di una bambina imbronciata.
«A me le cose brutte succedono perché me le merito, invece…» replicò l’uomo.
«Ma cosa dice, signor Peppard?» chiese la donna, alzandosi e andandogli incontro.
«È così, non serve che si finga sorpresa. Io purtroppo non ho nessuno spiritello dispettoso e se mi succede qualcosa di brutto è perché a volte sono una persona egoista e spregevole».
Per poco non ebbe uno svenimento: non aveva mai rivelato i suoi tormenti a nessuno se non al dottor Strauss e dopo aver edulcorato il tutto. Si chiese che potere misterioso possedesse quella crea-tura così eterea e terrena allo stesso tempo.
Nei brevi istanti in cui lui realizzava di essersi aperto come mai prima di allora, la donna aveva affermato: «Lei non deve credere una cosa del genere, non posso permetterlo», lo aveva abbracciato e aveva aggiunto: «Voglio fare qualcosa per lei».
«Lei è qui per fare qualcosa per se stessa, non per me, signorina Holly».
«Se una cosa ti fa stare bene e aiuta le persone che ami, quella cosa è giusta. Dovrebbero incidere questa frase sulla facciata di tutte le chiese. Le chiese sono tante, no? Sono sicura che molti la legge-rebbero e diventerebbero buoni anche senza entrarci, in chiesa. Sa, una volta ho raccontato a un prete di Gipsy e mi ha dato della bugiarda. Ho dedotto che i preti non sono poi tanto buoni». Si fermò un attimo come se quel ricordo la facesse soffrire, poi ripeté: «Se una cosa ti fa stare bene e aiuta le persone che ami, quella cosa è giusta. Forse ho detto anch’io una bella frase. Crede che dovrei anno-tarla nel mio diario?»
Victor inspirò profondamente, il cuore che pulsava a contatto con il petto della donna, sempre più stretto al suo.
«Il diario è suo, deve contenere solo quello che è importante per lei. Se pensa che valga la pena ricordarla si prenda il tempo di scriverla». Dopo qualche istante, Victor chiese esitante: «E io sono… tra le persone che ama?»
«Certo» rispose l’altra, poi con il solito tono eccitato domandò: «Lei fuma?»
«Sì».
«Ha una sigaretta?» chiese, sempre con quella sua luce negli occhi.
Il signor Peppard si avvicinò all’attaccapanni a cui aveva appeso la giacca e frugò nelle tasche in cerca del pacchetto. Dando un’occhiata fuori dal negozio, constatò che era ormai sera e l’orario di chiusura superato, quindi voltò il cartello sulla porta da aperto a chiuso.
«Sa, Holly, ho la sensazione di aver già vissuto questa scena» disse voltandosi, «probabilmente in un sogno…»
«Anche lei sogna?» chiese la donna.
«Tutti sognano».
«Non ne sono convinta» commentò, accompagnando la frase con un gesto della mano.
Nello scambiarsi queste battute, erano usciti dal negozio e si erano seduti su una panchina di fianco alla porta. Victor aveva acceso le sigarette di entrambi e stava per esprimere un parere sulla curiosa affermazione di Holly quando lei lo guardò dritto negli occhi e chiese: «Le piace il modo in cui fumo?»
La stessa sensazione che aveva provato mentre raccontava della convinzione di essere una persona orribile travolse il signor Peppard: parlare con Holly lo faceva sentire libero, gli faceva dimenticare ogni impellenza, reale o immaginaria che fosse, provava per lei un’attrazione fisica e mentale dettata dalla sensazione di sentirsi capito per la prima volta.
Prese una boccata d’aria e rispose: «Penso che le sigarette siano davvero degli oggetti incredibili nelle mani di una donna. Tra le dita di una possono essere volgari, tra quelle di un’altra possono renderla perfetta».
«Anche se lo pensasse non mi direbbe mai che sono volgare» ridacchiò divertita.
«Ha ragione, non lo farei. In ogni caso non lo penso, e credo che lei lo sappia».
«Sì, lo so» rispose sospirando. «Vede, lei e io siamo molto simili.»
«Molto più di quanto creda, signorina Holly». Il signor Peppard fece spirare il fumo lentamente e concluse: «Siamo animali della stessa specie».
«Oh, vuole sapere cosa diceva mio marito a questo proposito?» chiese, facendosi più vicina.
«Sono curioso di scoprirlo».
«Lui sosteneva che gli uomini possono essere divisi in due categorie: i cacciatori e le prede. Lei cosa ne pensa?»
Dopo averci riflettuto, l’uomo disse: «Vorrei pensare che le parti si potessero invertire di tanto in tanto…»
«Secondo me è una questione di musica» replicò l’altra, «due categorie non bastano a raggruppare tutti gli uomini; penso ci siano persone che ballano il tango, altre il valzer, qualcuno osserva in di-sparte aspettando di scendere in pista…»
«Allora io ho una gamba rotta» disse piano Victor.
La donna sorrise nuovamente: «A me sembra che si stia aggiustando».
«Lei la sta aggiustando» affermò, sentendosi libero.
«Oh, no, lei la sta aggiustando e poteva farlo anche senza di me».
Il significato di quella metafora era più che chiaro al signor Peppard, che nell’ultima mezz’ora non aveva sentito la maniacale necessità di compiere azioni inutili e aveva provato la sensazione di tro-varsi di fronte alla prima persona che lo vedeva davvero, che si accorgeva della sua esistenza e non lo trapassava con lo sguardo come fosse un velo d’acqua sottile. Gli sembrava che fosse realmente interessata a comunicare con lui e che questo gli desse valore.
Quello non era certo il genere di incontri che capitava alle persone orribili; per la prima volta in anni, il fatto di suscitare in una donna quell’interesse lo fece sentire una persona normale.
Si fece coraggio e le domandò: «Io abito al piano sopra il negozio, vuole salire a bere qualcosa?».
Lo chiese senza sapere cosa desiderasse davvero da lei, probabilmente lo chiese perché sapeva che la conversazione non sarebbe finita presto e continuare a parlare su quella panchina di legno era pittoresco per certi versi, ma davvero scomodo.
«A bere cosa?»
«Non lo so, un bicchiere di vino, d’acqua, di whisky…»
«Adoro il whisky, adoro molte cose…» rispose la donna e mentre Victor si alzava gli parve di sentirla sussurrare: «Esistono così tante cose da adorare!»
Lui le tese una mano per aiutarla ad alzarsi e lei apprezzò la cortesia, ma una volta in piedi affermò: «Non credo di voler salire».
«Come mai? Scusi se l’ho turbata» sussurrò abbassando lo sguardo.
«Non mi ha turbata affatto, lei ha chiesto esattamente quello che doveva chiedere in questo mo-mento. Solo che io ho una predisposizione a collegare le persone ai luoghi e ormai per me lei è questo negozio: non sono sicura di voler approfondire la sua conoscenza in un altro posto. Tuttavia gradirei veramente un bicchiere di whisky».
«E dove pensa di berlo?» si incuriosì l’altro.
«Sul pavimento» concluse lei, facendo l’occhiolino. «Salga, la aspetto qui».
«Inizia a fare freddo, può aspettarmi dentro il negozio» la invitò.
Quell’idea un po’folle di bere whisky sul pavimento del negozio con una donna così straordinaria innescò delle reazioni inedite nella mente di Victor. Era il genere di esperienza che pensava non gli sarebbe mai capitata.
A differenza di come aveva sempre agito in precedenza, però, in quel momento non si fermò a pensare troppo: aprì la porta e salì le scale di corsa, smanioso di tornare dalla creatura la cui identità gli pareva sospesa tra quella di una dea irraggiungibile e quella di una bambina che vede il mondo per la prima volta.
Holly sorrise e fece ondeggiare il vestito bianco, poi sparì dietro la porta del negozio deserto.
«Non le dà una sensazione di libertà incredibile?» sussurrò la donna quando si furono sistemati tra le gabbie, con la bottiglia e i bicchieri sul pavimento.
«Che cosa?»
«Il buio, il whisky, l’essere qui con me. Io mi sento leggera, e non ho ancora visto Gipsy, credo non mi sia mai successo di non intravederlo per tutto questo tempo» bevve un sorso e riprese: «Sa, non riesco a comprendere cosa pensi il dottor Strauss di Gipsy: non capisco se creda a quello che gli dico o pensi che non esista nessun fantasma. A volte, a sentirlo parlare, mi sembra convinto che Gipsy sia dentro di me, solo un’immaginazione, altre volte invece ho l’impressione che lo consideri qualcosa di esterno e che agisce indipendentemente dalla mia volontà. È molto strano come terapeuta, sa?»
fece una pausa e terminò: «Comunque mi sento veramente leggera in questo momento. Pensa che il dottor Strauss mi abbia mandata qui perché sapeva che sarei stata felice in questo posto?»
«Credo che il dottor Strauss sia veramente un ottimo analista» rispose Victor. Poi aggiunse: «Le persone curano le persone».
«Penso che anche l’amore lo faccia, se non le distrugge» commentò Holly, le gambe di traverso e il corpo appoggiato al braccio che non reggeva il bicchiere, sempre più vicina.
«A proposito di amore» replicò l’altro, «prima l’ho sentita parlare con il furetto dell’amore a prima vista. Le è mai capitato di incontrarlo?»
La donna allontanò il whisky dalle labbra come se il bicchiere scottasse per la fretta di rispondere: «Sì, con il mio ex marito è andata così, ma tra l’amore a prima vista e il vero amore c’è una grande differenza». Attese un istante, poi con leggerezza chiese: «Secondo lei cos’è l’amore?»
Victor pensò che quella fosse davvero una domanda difficile, specialmente per un uomo che cono-sceva a stento la stima per se stesso.
L’amore… probabilmente se anche gli si fosse presentato lui non lo avrebbe riconosciuto perché intento ad arrovellarsi su qualche altro pensiero. Rispose: «Forse bisogna essere predisposti a trovarlo se lo si vuole ottenere».
Holly sorrise e si accarezzò i capelli. Sembrava che il tempo si fosse fermato nuovamente, che tutte le ossessioni fossero state inghiottite dalla notte. Mai come in quel momento si erano sentiti in così perfetta armonia con il tempo e con il loro corpo, con la mente libera da quel tormento che per anni aveva condizionato le loro vite.
Si chiesero entrambi se potesse davvero bastare l’incontro con una persona speciale per sciogliere i nodi che li avevano legati così a lungo, pur guardando alle loro ossessioni con amara nostalgia. Forse, come aveva detto Holly, si erano in parte affezionati ai loro problemi e il legame con il mostro che li aveva tenuti in gabbia per anni era piuttosto complicato.
«Vuole dell’altro whisky?» domandò Victor, notando che la compagna aveva finito di bere.
«Solo poco» sorrise tendendo il braccio. «Oh, vado a controllare Victor». Si alzò con il bicchiere in mano e si avvicinò al bancone, mentre il padrone del negozio la guardava. Dopo pochi istanti, l’uomo la sentì sussurrare una frase terribile: «Come sei sveglio! Sei riuscito a uscire dalla gabbia!»
Non era possibile, aveva controllato quella e tutte le altre gabbie tre volte quella mattina e mentre la appoggiava sul bancone si era accertato che fosse chiusa. Inoltre era davvero improbabile che il furetto avesse aperto la porticina dall’interno, anzi, era del tutto fuori discussione.
Stava per alzarsi e chiedere spiegazioni, quando Holly, di spalle, sussultò e lanciò un grido: «Vic-tor! Victor!»
«Che cosa succede? Cosa significa che è riuscito ad aprire la gabbia?» chiese il signor Peppard, avvicinandosi.
La donna si voltò lentamente. Il volto era scomposto, teso. Quel viso che pochi istanti prima era il ritratto stesso della bellezza, ora appariva quasi disturbante, sconvolto da una smorfia stridente. Lo sguardo luminoso era diventato improvvisamente opaco e in quegli occhi sembrava di poter scorgere la superficie di un abisso che fino a poco prima Victor era distante dall’immaginare.
«È morto, deve aver mangiato… questo veleno per topi» disse Holly, e l’uomo comprese che a graffiare quel volto perfetto erano stati un’improvvisa tristezza e un grande shock. Eppure doveva esserci qualcosa di più profondo a turbare la donna perché reagisse in quel modo.
Il signor Peppard si bloccò, la mente più attiva che mai, il senso di colpa e l’ansia che minacciavano di sfondare la porta dietro a cui Holly era riuscita a relegarli.
Com’era possibile che la gabbia fosse aperta? Lui era sempre stato all’interno del negozio o appena fuori dalla porta e non era entrato nessuno, ne era certo. Gli venne in mente il momento in cui era salito a prendere il whisky, ma realizzò che l’unica persona a entrare era stata Holly, che non aveva detto di aver visto nulla di sospetto.
Holly. Nessun altro.
La soluzione era semplice: lui era colpevole. Solamente lui. Non solo doveva aver involontaria-mente aperto la gabbia, ma aveva anche dimenticato del veleno per topi sul bancone.
Imperdonabile.
Proprio lui, che della meticolosa cura per i dettagli aveva fatto una ragione di vita, aveva appena causato la morte di uno dei suoi animali per una sbadataggine inaccettabile. E non si trattava di un animale qualunque, ma di quello che doveva vendere alla donna che gli aveva regalato alcuni tra i momenti più incredibili della sua vita. Ora lei si nascondeva il volto con le mani tentando di non piangere e soffriva chiaramente di un dolore che non riusciva a controllare.
Per colpa sua.
Il dottor Strauss era convinto che quella terapia fosse necessaria e il signor Peppard l’aveva fatta fallire in modo così stupido.
Tutto perché aveva lasciato la gabbia aperta e il veleno poco distante.
Era probabilmente la peggior cosa che avesse mai fatto.
Mentre nella tempestosa psiche del signor Peppard si agitavano questi pensieri, Holly rimaneva inchiodata al pavimento con una sola idea in testa: Gipsy aveva aperto la gabbia, Gipsy aveva spostato il veleno, Gipsy aveva ucciso Victor. L’aveva fatto perché voleva sabotare la terapia del dottor Strauss, perché non voleva sparire. Gipsy voleva vivere, e la sua illusione che forse non lo avrebbe più rivisto dopo quella sera si era infranta.
«Non mi lascerà mai» singhiozzò Holly. «Non sarò mai libera» e abbassò il volto.
Tutto si era spezzato. La perfetta alchimia che aveva unito due estranei si era sbriciolata; avevano percorso un tratto di strada insieme e si erano nuovamente separati per correre sui binari di una par-ticolare ossessione che l’altro non avrebbe mai potuto comprendere fino in fondo.
Rimasero entrambi immobili e, pur condividendo la stessa stanza, si ritrovarono in mondi distinti e governati da leggi diverse.
Victor Peppard e Holly Streep non erano più la magia a cui avevano dato vita con la loro conversa-zione, erano nuovamente singole prede di due incubi diversi.
Ad un certo punto Holly tentò di riprendere a parlare: «Scusi se sono così scioccata, penserà che io sia disturbata dopo quello che le ho detto su Gipsy e sul fatto che in fondo ci sono affezionata» si interruppe per riprendere fiato tra i singhiozzi, «il fatto è che anche se in una qualche forma ci sono legata, preferirei che mi lasciasse in pace. Oggi mi sembrava davvero che qualcosa fosse diverso, ma Gipsy ha ucciso Victor, e questo è terribile! Non vuole che niente possa distrarmi da lui», si appoggiò al bancone, la schiena scossa da continui singhiozzi.
Il signor Peppard avrebbe voluto spiegarle che il poltergeist non c’entrava nulla, che era stato lui a causare la morte dell’animale, ma una forza invincibile glielo impediva. Temeva che Holly non gli avrebbe creduto e che questo li avrebbe allontanati maggiormente. Non sapeva cosa dire e iniziò a pensare che il clima speciale di pochi minuti prima non si sarebbe creato mai più: qualsiasi frase sembrava inappropriata, ogni mossa, sbagliata.
Restò immobile nel suo mondo di colpe. Aveva la bocca asciutta, mentre gli occhi di Holly sem-bravano due cascate: i loro corpi stavano reagendo in modo opposto all’accaduto.
Dopo pochi istanti, la donna si voltò verso Victor e prese un respiro profondo. Aveva il trucco sbavato e gli occhi arrossati.
«Devo andare».
«Perché? Dove?» scattò l’uomo, anche se in cuor suo sapeva che quella era l’unica cosa che Holly potesse fare.
«A casa, al parco… ovunque» balbettò pur cercando di mantenere un certo contegno. «Non posso più stare qui».
«Tornerà per comprare un altro animale?» domandò l’uomo, nella speranza di rivederla.
«Non lo so, ho paura della reazione di Gipsy» rispose. Parlare le stava facendo ritrovare una certa calma, anche se di tanto in tanto qualche lacrima le rigava le guance.
«Sarei felice di aiutarla a scegliere un nuovo animale, magari potremmo trovarne uno che non di-sturbi il suo poltergeist… insieme…»
Holly si strinse nelle spalle e replicò: «Non so se sarà possibile, lei non può capire».
Victor stava per rispondere che poteva capire benissimo e si era quasi deciso a spiegarle che il fantasma non c’entrava nulla e che era tutta colpa sua, quando lei si avvicinò alla porta e si congedò: «Le auguro di guarire la sua gamba al più presto».
Subito dopo si coprì il viso con una mano e si allontanò a passo svelto.
Era andata, forse per sempre.
L’uomo seguì con lo sguardo quel vestito bianco che si allontanava. L’abito di una sposa, il lenzuolo di un fantasma, Gipsy.
Rimase nuovamente immobile mentre tutte le parole pronunciate si rincorrevano nella sua mente.
Appena Holly uscì dal suo campo visivo, continuò a fissare il vetro senza capire se la testa gli stesse scoppiando o se non stesse pensando assolutamente a nulla.
Cos’era successo quella sera? L’incontro con quella donna lo aveva sconvolto, ma non riusciva ancora a comprendere se fosse stata l’esperienza più bella della sua vita o una vera e propria tragedia: per due ore non si era sentito in gabbia, ma era bastato un banale incidente per distruggere tutto. Non sapeva se Holly Streep gli avesse mostrato che era possibile vivere in un altro modo, più semplice e banalmente felice, oppure se gli avesse concesso uno sprazzo di gioia momentanea che non avrebbe provato mai più perché, come ben sapeva, era una persona orribile e non lo meritava.
Gli occhi fissi sul vetro smisero di scorgere la strada e iniziarono a vedere il riflesso del signor Peppard come in uno specchio.
Era solo, come ogni sera di quella sua esistenza anonima.
Si domandò se avrebbe parlato di Holly al dottor Strauss.
Facendo scattare la serratura per uscire, si fermò… nessun altro, oltre a Holly, era entrato nel ne-gozio quella notte. Nessun altro. Victor era morto per colpa sua.
Gipsy era reale per Holly.
Victor si sentiva colpevole.
Ognuno aveva la sua verità.
Ognuno ha il suo mostro.
***

Andrea Zancanaro è nato a Feltre nel 1995, si è diplomato al liceo scientifico Giorgio Dal Piaz e attualmente frequenta la facoltà di Medicina e Chirurgia a Firenze. Nel 2017 ha vinto il Premio Campiello Giovani e nel 2018 il Premio Coop for Words - i racconti dello scontrino. Sempre nel 2018 è stato scelto come giovane autore italiano per il concorso Racconto d’autore promosso dall’Istituto Italiano di Cultura di Stoccarda, ha ricoperto il ruolo di giurato presso le Olimpiadi di Italiano e presso il Concorso Nazionale Monti Dauni. Nel 2019 ha pubblicato il racconto Falene sulla rivista letteraria Ammatula e dal 2020 scrive articoli per la rivista Light Magazine.
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